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Il ricettario ufficiale di Netflix
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Pubblicazione: 02/08/2016
Lista degli argomenti
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“Quando uno ha assaggiato l’anguria, lui sa cosa gli angeli mangiano…” – Mark Twain
Si fa presto a dire cocomero
C’è sempre stata una grande confusione attorno all’identificazione delle cucurbitacee, una famiglia allargata che va dalla zucca al melone, dall’anguria al cetriolo.
E il cocomero? Ecco, per fortuna dizionari.it del Corsera viene in nostro aiuto, un sunto di quanto Maguelonne Toussint Samat riporta nel suo “Storia naturale e morale dell’alimentazione”, giusto per non far la figura dei citrulli.
“Si sa che il termine più appropriato, che ripete quello dei botanici, è cocomero, latino scientifico Cucumis citrullus; e cocomero si dice in tutta l’Italia centrale, mentre nell’Italia meridionale l’espressione comune è mellone (o melone) d’acqua, per distinguerlo dal mellone di pane, quello che tutto il resto d’Italia chiama semplicemente melone, e in Toscana vien detto anche popone.
Anguria è un termine più regionale che invade tutto il Settentrione, con varianti dialettali notevoli. Per confondere ancor di più le idee, ecco che nella stessa Lombardia e in vari luoghi del Piemonte e perfino del Mezzogiorno, chiamano cocomero il cetriolo!
Ritornando all’anguria, il nome risale al tardo greco angurion (che indicava propriamente il cetriolo), termine venutoci con la dominazione bizantina, intorno al VI secolo d.C., e diffuso in tutta l’Italia settentrionale attraverso l’Esarcato di Ravenna. Con referenze storiche così alte, anche anguria ha dunque pieno diritto di cittadinanza, e possiamo tranquillamente usarlo in alternativa a cocomero (cit., dizionari.it).
Ora che etimologicamente abbiamo le idee più chiare facciamo un salto nell’Olimpo, dove si vociferava che le divinità avessero, tra i tanti passatempi come mettere zizzania in terra e cielo, creare innamoramenti improvvisi e trasformare gli esseri umani in animali, anche quello di giocare a calcio e siccome la palla non era ancora stata inventata crearono il cocomero, che tra una partita e l’altra finì sulla Terra. Doveva trattarsi, per quanto detto sopra, di un cocomero rotondo e non ovale, perché non vi è notizia che gli dei dell’Olimpo giocassero anche a rugby.
Fu subito amore a prima vista! Non solo perché, come tutti i frutti e gli ortaggi ricchi di semi, fu considerato un portatore sano di fortuna e felicità ma perché le sue qualità nutrizionali erano ben note fin dagli antichi Egizi, probabilmente i primi a coltivarlo a grande scala, vista anche la sua alta resa. Riconosciuto in alcuni geroglifici di cinquemila anni fa, si pensava venisse direttamente dal seme del dio Seth, divinità del deserto e dei morti, e spesso inserito nel corredo funebre, in quanto considerato forma di sostentamento per l’aldilà, un gesto che mimava la consuetudine di offrirlo agli ospiti in visita quale ristoro dalle fatiche e dalla sete.
Hai un’anguria in tasca o sei felice di vedermi?
L’anguria, analogamente a tutti i componenti di questa famiglia botanica umile ma importantissima – come testimonia Tiberio che non concepiva di terminare un pranzo senza – è un concentrato di sostanze nutritive importantissime per il sostentamento del nostro organismo e che gli studiosi non hanno ancora finito di scoprire. Vitamina A e C, licopene e carotene, antiossidanti fondamentali per contrastare il cancro, potassio, fosforo e magnesio, è ricca di fibre e quasi priva di calorie (sembra un ortaggio pensato al femminile), detox, diuretica e, grazie alla presenza della citrullina, protettrice dei vasi e quindi del cuore. Ed è proprio su questa sostanza fitonutriente, un nuovo superfood, che gli studiosi stanno concentrando la loro attenzione in quanto, grazie alla presenza di alcuni enzimi, la citrullina si trasforma in arginina, un amminoacido benefico non solo per il cuore, per il sistema circolatorio e immunitario, ma un toccasana per i capillari e quindi un rimedio naturale per la cura delle disfunzioni erettili. Da far smontare il Viagra, insomma, in quanto non sarebbero presenti i successivi effetti collaterali, anche tossici, che l’assunzione di ogni farmaco naturalmente comporta.
Così buono che va a ruba!
Da sempre l’anguria è il frutto estivo più rubato, soprattutto nelle campagne venete: con un po’ di destrezza e schivando le fucilate di sale grosso si poteva risolvere il problema del pranzo o della cena. Mia mamma, di famiglia contadina, mi raccontava del “casoto dea meonara” che, tradotto in “casetta delle angurie o dei meloni”, identificava una specie di capanna che in piena estate veniva costruita e posizionata alla fine dei campi (in quanto zucche, meloni e angurie, con i loro filamenti, venivano utilizzati anche per definire i confini) e presidiato dai bimbi più piccoli delle allora numerose famiglie, proprio per scongiurarne furti e razzie.
Mille e una conquista
Fu con le prime Crociate che l’Europa venne a conoscenza del cocomero ma la regione del Mediterraneo che ne godette per prima fu la Sicilia, grazie alla dominazione Araba, con lo sbarco a Mazara del Vallo il 14 giugno 827, ad opera del colto generale Asad ibn al-Furāt ibn Sinān, che ne inaugurò letteralmente la rinascita sotto tutti i punti di vista. L’isola si trasformò, entrata in un’area islamica-nordafricana, e divenne l’epicentro commerciale arabo del bacino del Mediterraneo. Palermo divenne la sede dell’emirato e una delle città più importanti del mondo musulmano, distinguendosi per il lusso e la ricchezza dei suoi palazzi. Il latifondo venne abbandonato ed intere aree furono ripopolate con l’insediamento di coloni berberi e arabi, autori di imponenti opere di ingegneria idraulica che consentirono l’introduzione di nuove coltivazioni come l’arancio amaro di Giaffa, la canna da zucchero (fino al tardo medioevo chiamata Canna di Palermo), il cotone, il gelso, oltre alla coltivazione della vite.
Moltissimi sono i segni che ancora oggi testimoniano l’influenza della tradizione araba e la pasticceria siciliana ne è la testimonianza maggiore: cosa sarebbero le nostre vacanze siciliane senza la “mauthaban”, il marzapane con il quale le monache del convento di Martorana, non lontano da Palermo, confezionavano straordinari dolcetti con le forme e i colori dei diversi frutti. O il “sharbet” la preparazione fredda, forse proveniente dalla Cina, che tutto il mondo conosce con il nome di sorbetto. O il capolavoro da tutti conosciuto con il nome di cassata che deve il suo nome al termine “quas’at”, che significa casseruola, in riferimento allo stampo rotondo utilizzato per la sua preparazione. La cassata divenne un dolce così fondamentale per la pasticceria siciliana che il Sinodo di Mazzara del 1575, nonostante gli indubbi natali saraceni, la definì assolutamente indispensabile per le feste pasquali. Infine il cioccolato di Modica, che arrivò nell’allora Contea di Modica direttamente dal Nuovo Mondo grazie ai dominatori spagnoli verso la metà del’500. La ricetta consegnata ai pasticceri siciliani era quella che i Conquistadores avevano ricevuto direttamente dagli Aztechi e nei secoli è rimasta pressoché immutata in quanto, a differenza del resto d’Italia, non è mai diventato un prodotto industriale. E il risultato è un cioccolato molto scuro, rustico e granuloso con i cristalli di zucchero intatti.
Degli aromi e dei profumi
La pasticceria siciliana testimonia l’influenza araba anche per l’ampio utilizzo di aromi che restituiscono all’olfatto e al palato dei sentori unici come l’acqua di arancio, l’acqua di gelsomino e l’acqua di rosa, “ouard”, o piuttosto quello dei boccioli di rosa, “choucht el ouard”, macinati e ridotti in polvere e che provengono da rose profumate, con molti petali, di colore chiaro e originarie del Caucaso: furono introdotte nel Magreb più di un migliaio di anni fa. I boccioli si raccolgono in maggio per la produzione di spezie o miscele mentre i fiori vengono usati per la distillazione dell’acqua di rose. I decotti preparati con petali di rosa sono utilizzati anche nella medicina tradizionale in quanto aiutano la digestione e sono leggermente lassativi, mentre si ritiene che l’acqua di rose “ma el ward”, abbia proprietà calmanti e utili alla cura della pelle (vi ricordate il mitico tonico della Roberts?).
Brivido caldo
A Palermo il cocomero, o anguria, prende il nome di muluna ed ecco spiegato l’arcano del nome del dolce che festeggiamo oggi che si prepara e si offre il giorno dell’Assunta, a Ferragosto, il “Gelu i Muluni o Mulluni”.
Per tutta l’estate lungo le strade fanno bella mostra di sé i “mulunaru” con la loro golosa merce che si vende “a prova”, ovvero se appagati dopo averne assaggiata una piccola fetta, tagliata con maestria dal venditore. Un rito consolidato è anche la verifica della bontà dell’anguria che avviene abbracciando il frutto, avvicinato all’orecchio e percossa la superficie esterna con il pugno: si dovrebbero udire rintocchi armoniosi e profondi che gli esperti dicono simili a quelli di un violoncello. Rito che prende il nome anche di “toccata del culo”.
Una volta scelto con cura il frutto si provvede a tagliarlo in tocchi, passarne a setaccio la polpa e unirlo a zucchero e aromi, come cannella e vaniglia oltre all’acqua di rose e di gelsomino, preparando una gelatina tramite l’utilizzo dell’amido di mais (da preferire alla farina in quanto questa, vista la brevità della cottura, restituirebbe un gusto troppo riconoscibile di sfarinato crudo; l’alternativa è tostare in una padella di ferro la farina ma il rischio è di bruciarla e di compromettere irreparabilmente la delicatezza del dessert). Si trasferisce il composto in stampini individuali che si lasceranno rapprendere in frigo o in abbattitore. Alcune ricette prevedono, una volta raffreddata appena la gelatina e prima di trasferirla negli stampini, di arricchirla con tocchetti di cioccolato di Modica, così a mimare la presenza dei semi.
Si sforma e si serve oppure si può consumare direttamente della cocottina di porcellana: la sua trasparenza servirà proprio a trarre in inganno, dolce inganno, in quanto si confonderà con un fresco sorbetto. Si serve con scaglie di cioccolato fondente, zuccata (canditi di zucca), pistacchi sgusciati e tritati, cannella in stecca e in polvere.
‘O famo strano?
E mentre la gelatina si rapprende in frigo, in attesa che al primo assaggio si sciolga immediatamente quale cibo paradisiaco e, come si auspicava Lucio Piccolo, poeta cugino dell’autore del “Gattopardo”, profumato con i “gelsomini puerili”, possiamo dare un’occhiata a questo simpatico video, che ci spiega come, anche per le angurie, le dimensioni non sono tutto.
Portata: dessert
Dosi per 6-8 persone
Difficoltà: facile
Preparazione: 20’
Cottura: 10’
Riposo: si
Vino consigliato: Moscato di Noto o Ramandolo
Ingredienti
1 kg di polpa di cocomero maturo
200 g di zucchero (anche la metà se il vostro cocomero è molto dolce, non deve risultare stucchevole al palato)
80 g di amido di mais
50 g cioccolato fondente
50 g di pistacchi sbollentati e sbucciati
50 g di zuccata
cannella o vaniglia, a gusto
acqua di rose, un cucchiaio o acqua di gelsomino
Preparazione
Tritate i pistacchi dopo averli sbollentati per 2’ in acqua bollente e pelati.
Con un coltello affilato ottenete dal cioccolato sottili scaglie.
Setacciate per un paio di volte l’amido di mais, per evitare la formazione di grumi.
Passate la polpa di melone nel passaverdura o nel frullatore per pochi secondi e passate la polpa al setaccio per eliminare i semi. In una ciotola raccogliete polpa e succo, e in una più piccola sciogliete l’amido con un mestolo di succo facendo attenzione a non formare grumi; trasferite il tutto in una casseruola con il fondo pesante assieme allo zucchero, all’acqua di rose e alla cannella.
Portate a bollore con fuoco dolce e continuate la cottura per 5’, continuando a mescolare.
Eliminate la cannella, lasciate raffreddare una decina di minuti e unite al composto la zuccata, i pistacchi e il cioccolato; dividetelo negli stampini bagnati d’acqua o in cocotte di porcellana.
Coprite con pellicola e fate riposare in frigorifero per qualche ora o, meglio, per tutta la notte.
Servite sformando i dolcini oppure direttamente nelle cocottine decorando con foglie e fiori di gelsomino e limone, e con polvere di pistacchio.
Bibliografia
Il Decamelone, Anna Ferrari
Sicilia, Meridiani, AAVV
In difesa del cibo, Micheal Pollan
L’Islam a tavola, Lilia Zaouali
L’Italia del Gambero Rosso, Sicilia, AAVV
La cucina di Ziryab, Farouk Mardam-Bey
Alcuni discorsi sulla botanica, Santo Groviglio (1865)
Le avventure del couscous, Hadjira Mouhoub e Claudine Rabaa
Alla tavola di Yasmin, Marezza Loria – Serge Quadruppani
Storia naturale e morale dell’alimentazione, Maguelonne Toussaint Samat
La cucina medievale: lessico, storia, preparazioni, Enrico Carnevale Schianca
Il libro d’oro della cucina e dei vini di Sicilia, Mursia 1976/1980
www.accademianazionaledellanguria.it
Credits tavole botaniche e riproduzioni pittoriche: web
Caravaggio, Natura morta con frutta, 101-1605
Botero, Natura morta con anguria, 1992
Partecipano come contributors:
Stefania Pigoni, Gelo di Mellone
Sara Sguerri, Gelo di Mellone con Cioccolato Fondente
Serena Bringheli, Gelo di Mellone
Tamara Giorgetti, Gelu di Muluni per la festa di Santa Rosalia
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Anna Maria hai scritto un articolo bellissimo pieno di informazioni utili, simpatiche e divertenti, il gelo è piccola cosa di fronte alla cucina siciliana ma anche lui è importante, grazie cara un intervento utile e foto bellissime, un abbraccio
Splendido articolo e bellissime foto… Meravigliosa come sempre Anna Maria!