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Il ricettario ufficiale di Netflix
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Pubblicazione: 06/08/2016
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Ambasciatrice Enrica Gouthier per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar
La cottura allo spiedo ci riporta direttamente alle origini della cucina e a quella epocale rivoluzione che fu il passaggio dal crudo al cotto, da una cibo pensato solo come nutrimento per la sopravvivenza ad un cibo cucinato, che ampliò incredibilmente la gamma del commestibile, estendendosi in primo luogo alla carne e, da qui, agli enormi cambiamenti che una dieta carnivora ebbe sull’evoluzione dell’uomo ( Wrangham, R.W., Catching Fire, 2009).
In questa prospettiva, lo spiedo, che costituì il primo strumento di cottura sul fuoco diretto, diventa un “gesto storico” ricco di tradizione e di significato.
STORIA
Gli animali interi e i grossi pezzi di carne venivano cotti in buche e ricoperti interamente dalle braci, o disposti su pietre ollari, tenute calde dal fuoco. Invece le piccole parti erano infilzate su bastoni ed esposte direttamente al calore del fuoco mentre venivano costantemente rigirate. Queste potevano poi essere ricoperte con delle foglie, che mantenevano all’interno l’umidità e rendevano più tenera la carne.
I primi documenti noti che parlano dell’esistenza e dell’uso dello spiedo sono i poemi omerici, composti probabilmente attorno al IX sec. a.C. Già nel primo libro dell’Iliade Omero descrive la preparazione di un banchetto con la cottura delle carni allo spiedo:
“Quindi fin posto alle preghiere, e sparso il salso farro, alzar fêr suso in prima alle vittime il collo, e le sgozzaro. Tratto il cuoio, fasciâr le incise cosce di doppio omento, e le coprîr di crudi brani. Il buon vecchio su l’accese schegge le abbrustolava, e di purpureo vino spruzzando le venìa. Scelti garzoni al suo fianco tenean gli spiedi in pugno di cinque punte armati: e come fûro rosolate le coste, e fatto il saggio delle viscere sacre, il resto in pezzi negli schidoni infissero, con molto avvedimento l’arrostiro, e poscia tolser tutto alle fiamme. Al fin dell’opra, poste le mense, a banchettar si diero, e del cibo egualmente ripartito sbramârsi tutti.” (trad. Vincenzo Monti)
Purtroppo questo brano non ci permette di capire di che materiale fossero fatti questi antichi spiedi. Sappiamo che i primi erano di legno (nella Bibbia, per esempio, si legge che Mosè prescrisse agli Ebrei di creare spiedi solo col legno di melograno); e dalle numerose testimonianze scritte pervenuteci, abbiamo appreso che già in epoca romana si infilzavano le carni sul ferro. Fu, però, dalle popolazioni che vivevano ai confini settentrionali dell’Impero romano che la tecnica si diffuse su larga scala, anche in seguito all’invasione dei Longobardi, che di questa cottura erano abili ed esperti: il latino “venabulum” cedette il passo al longobardo “spiede”, che da noi diventa “spetus”, nell’attuale Francia “espiet”, oltre la Manica “spit”. Si trattava, con tutta probabilità, di un’arma bianca costituita da un’asta di legni resistenti e flessibili insieme, come il tasso o il frassino, della lunghezza di due metri circa, che a una estremità montava una punta aguzza di metallo, generalmente a forma di rombo o di foglia, sulla quale si infilzavano le carni, per una cottura ancora su fuoco diretto.
Chiarissima la doppia funzione dell’arma (in origine le lance, poi altri strumenti detti per l’appunto “spiedi”), che fa risalire questa cottura a società militari e guerriere, come d’altronde sono tutte le civiltà degli esempi citati, dagli Achei ai Longobardi.
Oggi si discute molto sulla bontà della carne cotta direttamente sul fuoco e vi sono alcuni cuochi che hanno riportato in auge questa tecnica, con risultati sorprendenti: nel Medio Evo, invece, erano già iniziati i primi esperimenti per tamponare gli effetti di un contatto senza filtri, oltre che per permettere allo spiedo di ruotare. Lo stesso Leonardo da Vinci elaborò uno spiedo mosso dal fumo, con un sistema di contrappesi e di carrucole.
Il perfezionamento degli strumenti è indizio del permanere di questa tecnica: anche se la dominazione longobarda durò poco più di due secoli, questa tradizione riuscì ad oltrepassare ogni barriera, insinuandosi anche nelle case della povera gente. I ricchi arrostivano interi pezzi di bue, i poveri uccellini o scarti più nobili: e tutti tramandavano quest’arte, di generazione in generazione. Questo avvenne nelle zone a più diretto contatto con i Longobardi, dove tuttora la tradizione rimane: la Pedemontana trevigiana in Sinistra Piave e, soprattutto, Brescia.
E SI GIUNGE A BRESCIA
La specialità gastronomica dello spiedo si è sviluppata maggiormente a Brescia. Esso è diventato il piatto che contraddistingue questa provincia e nel corso dei secoli si è trasformato in un oggetto di culto, dove ogni famiglia sviluppa la propria ricetta tramandata negli anni.
Per capirne l’importanza si deve risalire alla regolamentazione della caccia nelle riserve e territori dei nobili, che vietavano al popolo la cattura di selvatici di grossa taglia, come cervi, daini, caprioli, cinghiali. Ad esso lasciavano solo la selvaggina di piccola taglia, in quanto veniva disdegnata dai più potenti. Ma, grazie a queste piccole conquiste, la popolazione affamata poteva introdurre nella propria dieta alcune proteine e variare il menù di sole zuppe e carboidrati.
A dar maggiore rafforzo di quanto scritto sopra ci rifacciamo ad un quadro di Angelo Inganni, “Ragazza davanti al focolare”, 1870, dove si nota chiaramente una povera donna mentre arrostisce uccelli di piccole dimensioni, perché ai popolani era concesso di cacciare solo questi volatili.
Il condimento variava dalle zone: in quelle montuose si poteva trovare il burro, altrimenti veniva usato il lardo o lo strutto.
Successivamente, in un momento di maggiore fioritura economica, vennero introdotti quelli che in bresciano son detti mòmboi, lòmboi, mùmbulì: sottili fette di suino o lonza che vengono salate e arrotolate su se stesse. Si inframmezzano tra i piccoli volatili e servono conferire un maggiore sapore e più robustezza al piatto. L’aroma che veniva aggiunto era la salvia.
L’unica piccola regola che doveva essere rispettata era la grandezza, che non doveva mai superare i 60-80 g, così da avere una cottura uniforme.
DUE RACCOMANDAZIONI…
Dal libro “Brescia e la civiltà dello spiedo”, Compagnia della Stampa Massetti Rodella Editori, Brescia, 2002, si legge:
“Per ogni commensale calcolo all’incirca 8 prese (pezzi di carne di diverse qualità), variando le proporzioni a seconda del tipo di spiedo, della disponibilità di uccellini e del gusto personale. L’unica formula fissa rimane quella dell’alternanza di uccellino e mombol, dove i componenti sono equamente suddivisi a metà. Il peso del burro è generalmente di un chilo per 100 prese, e 100 le foglie di salvia, più eventualmente una da inserire in ogni mombol. In quanto al sale, essendo un ingrediente che varia sensibilmente il proprio effetto sia in base alla sua natura, provenienza e grana di macinazione, non si possono indicare quantità fisse, e tutto sarà affidato alla perizia dello spiedatore”
Se si vuole rimanere nella storicità, gli unici elementi concessi sarebbero la carne, il grasso e la salvia. Ma, come si sa, la cucina è anche la rappresentazione delle varie zone in cui ci si trova. Ognuna di esse ha una sfumatura e tradizione diversa. Sono proprio queste piccolezze che hanno modellato questo piatto e fanno sì che possiamo trovare ricette differenti in tutto il Bresciano, fino ad includere la Franciacorta.
SPIEDO O SPIEDINO?
Per quanto fossero tutti pazzi per lo spiedo, è indubbio che questo fosse difficile da maneggiare e, soprattutto, fosse adatto solo a grandi quantitativi di cibo. Già i soldati romani, antesignani del barbecue, arrostivano su spade le piccole porzioni. E le successive leggi venatorie non fecero che spingere in questa direzione, destinando all’alimentazione del popolo gli animali di piccola taglia. Quando nasca, il primo spiedino, non si sa. Perché nasca, sì, visto che ha per madre la solita necessità, origine di tante innovazioni nel mondo del cibo.
Oggi, nelle nostre cucine, ritroviamo soprattutto spiedini. Comodità e dimensioni sono le ragioni. Gli spiedi li possiamo ancora ritrovare nelle rosticcerie o in giro per le sagre che si svolgono nelle province di Brescia e dintorni.
Non essendoci grandi tradizione per gli spiedini, se non la praticità e la velocità nel prepararli, essi possono essere costituiti da qualsiasi cosa. Dolci o salati, cotti o crudi, di pesce o di carne. Ci si può davvero sbizzarrire e dar spazio alla propria fantasia.
Ingredienti per 8 spiedini:
800 g di petto di pollo
1 cipollotto rosso
1 spicchio d’aglio
noce moscata
170 g di yogurt greco
basilico e prezzemolo a piacere
4 cucchiai di olio extra vergine d’oliva
la buccia grattugiata di un limone non trattato
sale e pepe
1. Tagliare i pezzi di pollo a cubetti di circa 2 cm di lato e metterli in un’ampia ciotola. Unire lo yogurt, l’olio, il sale e il pepe e mescolare con cura.
2. Tritare finemente gli aromi e il cipollotto. Aggiungerli alla carne. Unire anche la buccia del limone, un pizzico di noce moscata, lo spicchio d’aglio in camicia e mescolare molto bene. Coprire con pellicola e far marinare almeno per una notte.
3. Sgocciolare la carne dalla marinatura e comporre gli spiedini sugli stecchi; nel frattempo scaldare la piastra.
4. Cuocere 3 minuti per lato; se necessario, pennellare ancora leggermente la carne con la marinatura rimasta.
5. Servire gli spiedini con una fresca insalata o verdure miste grigliate.
BIBLIOGRAFIA:
“Brescia e la civiltà dello spiedo”, Compagnia della Stampa Massetti Rodella Editori, Brescia, 2002
“Le cento migliori ricette di spiedini” di Emilia Valli
“Verdure, che passione!” Ed. Gribaudo, 2015
SITOGRAFIA:
www.italiaatavola.net
www.ilgustoitaliano.it
www.coopfirenze.it
giampierororato.blogspot.it
Partecipano come contributors:
Enrica Gouthier, Spiedini di verdura e frutta secca
Stefania Pigoni, Spiedini di zucchine alle griglia
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