San Gennaro: La pizza

Pubblicazione: 19 Settembre 2016

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Giornata Nazionale della Pizza, San Gennaro

Ambasciatrici Maria Teresa Cutrone e Cinzia Martellini Cortella per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

Oggi è la festa di San Gennaro e il Calendario del Cibo Italiano festeggia con la pizza!
Tutto il mondo conosce la pizza: questo vocabolo è ormai universale (è la parola italiana più diffusa al mondo) e racchiude non soltanto un significato intrinseco di pietanza, ma è portavoce di connotazioni legate alla cultura italiana, in primis napoletana.
E’ straordinario come questo semplice disco di pasta lievitata, conosciuto sin dalle popolazioni più remote, abbia attraversato secoli di storia per approdare a Napoli e legarsi indissolubilmente con questa città da diventarne un preciso fenomeno locale, per poi conquistare le tavole di tutto il mondo e contaminare le tradizioni culinarie più lontane dalla nostra.

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Ma tu vuliv’a’pizza… a’pizza e niente chhiù… così suonava il ritornello di una famosa canzone negli anni ’60, quasi a simboleggiare la ricchezza peculiare che una semplice pizza, fatta di pochi e comuni ingredienti, potesse avere rispetto a sontuose cene luculliane e diamanti scintillanti!

Ma quando è nata la pizza?

Non è certa una sua precisa collocazione nel tempo in senso lato, dato che impasti tondeggianti cotti su braci o pietre roventi si conoscevano già dai tempi antichi; agli Egiziani, scopritori della lievitazione in seguito alle inondazioni del Nilo, si deve l’invenzione del forno, dove cuocevano particolari focacce di erbe aromatiche per il compleanno del Faraone. Per i Babilonesi, certe focacce erano il cibo base dei soldati; dalla Grecia ci giungono testimonianze di tipiche gallette, le maza, fatte con farina d’orzo; sulle tavole romane si sbocconcellavano offa (di farro) e placenta (di grano).
Si potrebbe dedurre, quindi, che la parola pizza nasca dal greco piézō (premere) o dal latino pinso, dello stesso significato: inevitabile, nel tempo, la traslazione lessicale in pinza, pitta, pizza.
Ma si azzardano anche ipotesi esterofile, perché, come enuncia il Vocabolario Treccani, la voce era già presente nel latino medievale: potrebbe quindi derivare dal germanico bizzo o pizzo, bit o bite in inglese (morso, boccone), termini conosciuti con le invasioni dei Longobardi nel VI secolo.
Ancora: pizz è un vocabolo napoletano che sta a significare pezzetto o angolo di qualcosa; inevitabile l’associazione col pezzetto di pasta staccato dall’impasto principale per farne una piccola porzione da lavorare singolarmente.
Storicamente si ha traccia della prima parola pizza scritta in un documento notarile del 997 d.C., conservato nell’archivio storico della cattedrale di Gaeta: una sorta di contratto di affitto per un mulino di proprietà del Vescovo, a cui si facevano regali in cibarie a Natale e a Pasqua, offrendo animali da cortile e una dozzina di pizze.
In Liguria a fine ‘400 si cucina la Pissa d’Andrea, dedicata all’ammiraglio Andrea Doria, che pare ne fosse molto goloso: deriva dalla focaccia genovese, è farcita con cipolle, olive, acciughe e formaggio molle locale, ma è cotta in teglia e non direttamente sul fuoco come la Napoletana. Il termine pissa in dialetto genovese sta per pezza, ed è facile intuire anche la contaminazione coi cugini d’oltralpe, che tuttora gustano la Pissaladière, la tipica focaccia nizzarda con cipolle e acciughe.
E fino al XIX il termine pizza indica sì qualcosa di tondo cotto al forno, ma riferendosi quasi sempre a torte dolci, focacce e schiacciate.
Anche Pellegrino Artusi (1820 – 1911), nella sua leggendaria raccolta di ricette “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene” riporta ben tre ricette di pizza, comunque dolci: n. 252 – Pizza a libretti, una sfoglia di pasta all’uovo, ripiegata più volte e fritta; n. 609 – Pizza alla napoletana e n. 610 -Pizza gravida, due crostate farcite alla crema (commentando la ricetta della napoletana con: “A me sembra che questo riesca un dolce di gusto squisito”).
Si può invece affermare con certezza e senza ogni ragionevole dubbio che la pizza intesa come napoletana, quel bel disco rotondo, condito con pomodoro, mozzarella e basilico, sia nata a Napoli e lì vi sia rimasta confinata a lungo, raggiungendo poi il palato foresto e la notorietà globale solo in tempi moderni.

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Il pizzaiuolo, da “Usi e Costumi di Napoli” di F. de Bourcard – immagine dal web

Ci racconta il letterato Emmanuele Rocco, a metà Ottocento, nella raccolta Usi e costumi di Napoli di Francesco de Bourcard: “La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché si fa col “fiore”, e perché è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli. Prendete un pezzo di pasta, allargatelo o distendetelo col matterello o percuotendolo colle palme delle mani, metteteci sopra quel che vi viene in testa, conditelo di olio o di strutto, cuocetelo al forno, mangiatelo, e saprete che cosa è una pizza. Le focacce e le schiacciate sono alcunchè di simile, ma sono l’embrione dell’arte”.
Infatti, i vocaboli pizza e pizzaria sono aggiunti nei dizionari della lingua italiana solo dopo i primi anni del Novecento, rimanendo comunque termini del gergo napoletano fino al Dopoguerra.
Dunque, origini certe napoletane, dove vi resta confinata, però, fin quasi agli anni ’60.
In seguito, conseguentemente anche alla grande emigrazione lavorativa verso il Nord, la pizza comincia a farsi conoscere ed apprezzare anche nelle altre regioni: in pochi anni il numero delle pizzerie decuplica e la pizza raggiunge il suo meritato successo nazionale.

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pizza a libretto

La pizza napoletana fa la sua prima comparsa dopo la prima metà del Settecento, quando si consolida l’uso del pomodoro in cucina, di cui pare fossero stati proprio i Napoletani i primi a farlo. Non si conosce chi per primo ebbe l’idea di aggiungerlo, ma da allora ne è diventato ingrediente primario.
Cibo popolare, preparato con ingredienti semplici e al bisogno, a basso costo, definita spesso il cibo dei poveri: a Napoli, nell’800 la città a più alta densità abitativa d’Europa e seconda più popolata dopo Parigi, due terzi della popolazione vivevano in miseria. I più fortunati abitavano nei caratteristici bassi, piccole stanze anguste con accesso diretto sulla strada, senza servizi igienici e spesso senza cucina. Era inevitabile, quindi, comprare qualcosa nelle bettole o dai venditori ambulanti, come racconta Matilde Serao, ne Il ventre di Napoli: “E’ vero, la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo, di moltissima parte del popolo napoletano”.

Pizza come primo cibo di strada italiano: fino alla prima metà del ‘700, data in cui iniziarono a nascere le prime pizzerie (più laboratori, che veri e propri locali di degustazione), si vendeva e si consumava la pizza per strada, solitamente piegata a libretto. E spesso, per i vicoli, si potevano incrociare i carretti dei garzoni con sopra stufe in metallo per tenere in caldo le pizze da vendere. Queste prime pizzerie sorgevano, di solito, vicino alle osterie, perché un’ordinanza borbonica vietava loro la vendita di vino. Con l’inizio del nuovo secolo, iniziarono ad espandersi e rendersi più ospitali, con l’aggiunta di tavoli e panche per il servizio, visto la crescente popolarità ed apprezzamento di questa pietanza anche da parte dei ceti più abbienti, che fino ad allora l’avevano snobbata.
Contribuiscono alla sua notorietà anche i reali borbonici: Ferdinando I ne era molto goloso, e non ne era da meno il suo erede, Ferdinando II, usi entrambi a chiamare a corte i pizzaioli più esperti.

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Leggenda o realtà?

E’ di conoscenza popolare far risalire il nome della pizza Margherita all’11 giugno 1889, quando il pizzaiolo Raffele Esposito cucinò tre tipi di pizze per il Re Umberto I e sua moglie, la Regina Margherita, in visita a Napoli, dedicando quella di pomodoro, mozzarella e basilico, un omaggio al tricolore italiano, proprio alla Regina. Ma di questa pizza ne parla già 40 anni prima ancora Emmanuele Rocco: “Le pizze più ordinarie, dette coll’aglio e l’oglio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle, ecc. Talora ripiegando la pasta su di se stessa se ne forma quel che chiamasi calzone”.
Popolare era anche la Marinara, il cui nome potrebbe trarre in inganno: non aveva nessun ingrediente che la collegasse all’ambiente marino, se non che veniva consumata nei locali adiacenti al porto da marinai stanchi, affamati e squattrinati. Al semplice e usuale condimento di olio e pomodoro, ci si ingegnò di aggiungere dell’aglio (le acciughe avrebbero innalzato troppo il prezzo), saporito e a basso costo; così anche nelle pizzerie si cominciò a domandare la pizza che piaceva ai marinai.

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La pizza diventa allora un alimento trasversale che unisce tutte le classi sociali, dai ceti più poveri a quelli più abbienti, borghesia e nobiltà comprese. Restando, comunque, un fenomeno ancora napoletano: ce lo conferma di nuovo la Serao, quando racconta di un industriale locale che, forte della bontà della pizza e della numerosa colonia di napoletani trasferitasi nella capitale, decide di aprirvi una pizzeria (siamo ai primi del ‘900), sfornando le pizze preferite dai suoi compaesani. Ma, dopo l’affollamento della novità iniziale, l’interesse va scemando e la nuova attività fallisce: la pizza, tolta dal suo ambiente “… pareva una stonatura e rappresentava un’indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana”.
Nelle nuove pizzerie di metà/fine’800 nasce un’usanza che durerà fino al Dopoguerra: vicino ai tavoli venivano disposte delle scatole di latta utili per raccogliere i cornicioni non mangiati. A fine serata i più poveri facevano il giro dei locali per raccimolare gli scarti e colmare così, almeno per quel giorno, la loro fame perenne.
La prima pizzeria nata a Napoli è l’Antica Pizzeria Port’Alba, fondata nel 1738 per rifornire i venditori ambulanti e, nel 1830, aperta definitivamente al pubblico accomodato.

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il focone

Una menzione speciale anche per la pizza fritta, molto probabilmente l’antesignana della poi napoletana, di cui si può ricordare l’indimenticabile episodio Pizze a credito ne L’Oro di Napoli (1954), il famoso film di Vittorio de Sica, con la verace Sofia Loren e Giacomo Furia. L’arte di arrangiarsi è parte indissolubile del popolo napoletano, ieri come oggi; oserei dire che rientra nel suo DNA. Nasce, allora, la figura del pizzaiolo occasionale, quello che, nel suo giorno di riposo, tira fuori dal proprio basso il focone, dispone sul vicolo una sorta di bancone con gli ingredienti necessari ed impasta e vende le sue pizze fritte oggi a otto: oggi la mangi e fra otto giorni la pagherai, quando il pizzaiolo arrangiato riaprirà i battenti, sicuro del ritorno dei clienti, per la bontà della pizza e per l’ingegnoso trattamento economico offerto.

Oggigiorno assistiamo al diffondersi anche della pizza gourmet, un fenomeno in evoluzione, una ricerca costante di nuove prospettive per una pietanza intramontabile.
Dopo un periodo burrascoso dedito solo all’accumulo di ricchezza, sottovalutando la qualità del prodotto offerto, si è voluti ritornare ad una consapevolezza maggiore, che dovrebbe rimanere intrinseca nella propria professionalità, ad un rispetto totale della materia prima da usare, ad un riconoscimento oggettivo dei prodotti del territorio. In questi ultimi decenni sono nate associazioni di categoria per valorizzare la figura del pizzaiolo e sono partite richieste per ottenere un albo ufficiale della professione.
Sempre più, quindi, possiamo affidarci ad esperti che studiano i fenomeni scientifici collegati all’impastamento, alla lievitazione e alla cottura. Fisica, chimica, biologia e matematica sono coinvolte nella riuscita o non riuscita di una pizza; anche se la tradizione, il pragmatismo e l’esperienza di generazioni di pizzaioli ci hanno regalato un patrimonio di conoscenze di impareggiabile valore.
Coniugare questi due aspetti, scienza e tradizione, è la sfida del nuovo millennio, la vera scommessa dei moderni pizzaioli, che in tutte le parti del globo intraprendono questa attività con grande passione e le giuste conoscenze e competenze tecnico-scientifiche.
Nel 2004 la pizza napoletana è stata riconosciuta Specialità tradizionale garantita dall’Unione Europea, ottenendo il marchio di qualità STG. Perché sia tale, la pizza deve essere preparata con ingredienti e metodiche che sono state codificate. La lavorazione va eseguita a mano, unica concessione per l’utilizzo di macchine è la preparazione dell’impasto. La stagliatura e la stesura vanno eseguite rigorosamente a mano, e la cottura esclusivamente nel forno a legna.
“L’arte dei pizzaiuoli napoletani” è la sola candidatura italiana (scelta perché rappresenta l’Italia nel mondo ed approvata all’unanimità dalla Commissione nazionale italiana per l’Unesco) nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’umanità dell’Unesco. Sarà valutata a Parigi nel 2017 ed è la prima candidatura a livello mondiale di una tradizione connessa ad una produzione alimentare.

“Se c’è un cibo che rispecchia le abitudini alimentari del passato, del presente e del futuro, questo si chiama pizza. In un’apparente contraddizione, c’è tutta la valenza di questa pietanza che da Napoli ha saputo scalare gerarchie sociali, diventando punto di incontro di culture alimentari, fatto di costume e fenomeno economico”. Giovanni Mento, presidente nazionale della Federazione Italiana Pizzaioli nel mondo.

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Nel 1984 l’Associazione Verace Pizza Napoletana ha redatto un Disciplinare Internazionale per la tutela di questa antica pietanza di pura tradizione partenopea, codificando le regole e i segreti tramandati oralmente da generazioni di pizzaioli napoletani. Possiamo sintetizzarli così:

Aspetto

– la pizza napoletana è tondeggiante, con un diametro di circa 30-35cm;
– presenta il bordo rialzato (il famoso cornicione), gonfio e privo di bruciature;
– deve essere morbida ed elastica.
Ingredienti:
– acqua: 1 litro
– sale: 50-55 g
– lievito: 3 g (lievito di birra fresco)
– farina: 1,7-1,8 kg (farina 00 o 0 – W220-380)
Condimento:
La vera pizza napoletana va condita con ingredienti preferibilmente di origine campana. L’olio utilizzato deve essere extra vergine d’oliva; è possibile scegliere tra mozzarella e fiordilatte DOP. La tradizione prevede precisamente pomodoro vesuviano o San Marzano e aglio di Afragola.

L’IMPASTO

La farina: il Disciplinare prevede rigorosamente l’uso di farina 00 o 0. In realtà, questa regola tende ad essere sempre più disattesa: si fanno spazio le farine semintegrali, tipo 1 e 2, e grani diversi, che regalano all’impasto un gusto più rustico e caratteristico, arricchendolo di preziosi micronutrienti.
L’acqua: è importantissima nella chimica dell’impasto. Senza acqua non c’è vita, dunque neanche fermentazione e lievitazione; inoltre è la responsabile della principale reazione chimica in un impasto, la formazione del glutine.
Il glutine è una proteina complessa formata da due proteine, la gliadina e la glutenina. In presenza di acqua le due proteine si uniscono formando la maglia glutinica, una catena proteica elastica insolubile in acqua: una sorta di rete di contenimento dei gas prodotti dalla fermentazione, degli amidi e di tutte le altre sostanze contenute nell’impasto. Fondamentale è, quindi, la percentuale e la tipologia di sali minerali disciolti nell’acqua, importante anche il suo pH; quindi, meglio usare una buona acqua oligominerale (nel dubbio, di bottiglia).
Una curiosità: chissà quante volte abbiamo abbinato la bontà di una pizza alla bontà dell’acqua, e in particolare dell’acqua di Napoli, erogata prima dai vecchi acquedotti romani e poi dal nuovo del Serino. Ma oggi non è quello l’unico acquedotto a Napoli, e fino al 1885, anno di attivazione del suddetto acquedotto, l’acqua a Napoli era malsana. Ciononostante la pizza, pietanza plebea, era ed è tuttora un alimento sano, per l’alta temperatura di cottura, 450°C, che la sterilizza completamente; ma anche per l’uso di pomodoro e olio extravergine, due pilastri della moderna dieta mediterranea.
Il lievito: lievito madre o lievito di birra?
Sono entrambi lieviti naturali e attivano la cosiddetta lievitazione biologica, del tutto diversa dalla lievitazione chimica, attivata dai lieviti chimici.
Il lievito madre è sicuramente quello utilizzato dai pizzaioli napoletani nel Sette/Ottocento, o meglio era utilizzato il criscito, una parte di impasto della pizza del giorno prima, lievemente inacidito, usato come base per far ripartire la fermentazione (oggi chiamato pasta di riporto).
Il lievito di birra è quello indicato dal Disciplinare. Un tempo ricavato dai residui della fermentazione della birra, è composto da un solo ceppo di lieviti, i saccharomyces cerevisiae; se conservato bene garantisce sempre una buona lievitazione. Il lievito madre, invece, una sorta di prefermento o preimpasto, è selvaggio, cioè composto da una casuale combinazione di vari ceppi di lieviti e batteri, che devono essere nutriti giornalmente con acqua e farina. Per questo è molto volubile ed universalmente diverso, ogni panificatore ha il proprio. Perciò è meno controllabile e prevedibile del lievito di birra e solitamente più lento nella lievitazione: in cambio regala profumi straordinari e contribuisce alla conservazione del prodotto.
Come orientarsi? Semplice, provandoli entrambi per apprezzarne le diverse caratteristiche sensoriali; o sperimentare la lievitazione mista, con l’uso di entrambi nello stesso impasto, come fanno gran parte di pizzaioli oggi.
Il sale: elemento indispensabile nella panificazione, nella giusta proporzione (1/2,5% sulla quantità di farina) svolge una buona azione antisettica, rallentando l’attività fermentativa dei batteri in favore del processo di maturazione dell’impasto, ed aiuta lo sviluppo della maglia glutinica. Da evitare il contatto diretto col lievito di birra perché ne distrugge la membrana cellulare (mentre non influisce negativamente sulla pasta madre); va aggiunto quando è stata incorporata un po’ di farina o a fine impasto.

IL CONDIMENTO

Ingredienti fondamentali per una pizza napoletana sono il pomodoro, l’olio extravergine e la mozzarella; a cui si possono aggiungere altri tradizionali come alici, aglio, origano e, a seguire, tutti quelli aggiunti dalla creatività dei pizzaioli nel corso degli anni.
Il pomodoro, una solanacea che ha cambiato la storia della nostra alimentazione più delle sue “sorelle” (peperone, patata, melanzana), si può considerare a pieno titolo l’ingrediente simbolo della pizza napoletana.
Negli anni ’20 si riscopre il San Marzano in un nuovo incrocio ideale per l’inscatolamento, ma buonissimo anche crudo per la sua dolcezza e carnosità, il più indicato per il condimento della pizza. Il “Piennolo” del Vesuvio“, un pomodoro dolcissimo, piuttosto piccolo, ovale con una caratteristica punta, è la seconda varietà più consona all’uso.
La mozzarella STG (Specialità Tradizionale Garantita) è tradizionalmente più adatta del fiordilatte per la sua minore acquosità. Sconsigliata invece la mozzarella di bufala cotta sulla pizza, in quanto molto acquosa, oltre che sprecata se cotta. Meglio usarla cruda ben scolata, come è ormai consuetudine in molte pizzerie.
E’ fondamentale che l’olio sia rigorosamente extravergine di oliva di ottima qualità. Aggiunge sapore, amalgama il condimento e dona profumi particolari, se aggiunto anche dopo la cottura, in quanto le alte temperature fanno svanire la parte aromatica.

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credits to Franco Pepe

FARE LA PIZZA (anche nel forno di casa)

Dal Disciplinare:
“Si mescolano farina, acqua, sale e lievito. Si versa un litro di acqua nell’impastatrice, si scioglie una quantità di sale marino compresa tra i 50 e i 55 g, si aggiunge il 10 % della farina rispetto alla quantità complessiva prevista, successivamente si stemperano 3 g di lievito di birra, si avvia l’impastatrice e si aggiunge gradualmente il resto della farina W 220-380 fino al raggiungimento della consistenza desiderata, definita punto di pasta.
Tale operazione deve durare 10 minuti.
Successivamente l’impasto deve essere lavorato nell’impastatrice per 20 minuti a bassa velocità.”
Si può tranquillamente impastare anche a mano, e ci sono pizzaioli famosi che ancora lo fanno, perché permette di sentire l’impasto, avere la soddisfazione di crearlo, percepirne l’elasticità e capire quando è pronto: in altre parole, riappropiarsi di quegli antichi gesti ed avere la soddisfazione di trasformare con le proprie mani la materia grezza in una massa liscia e setosa.
Segue la prima lievitazione o lievitazione di massa, di durata variabile, a seconda della temperatura. Può durare oltre 48 ore, al freddo ovviamente: in queste condizioni la lievitazione viene fortemente rallentata, mentre continua l’attività enzimatica, cioè il processo di maturazione. La bravura del pizzaiolo consiste proprio nel saper conciliare i tempi di lievitazione e maturazione.
Poi è il momento della stagliatura, la divisione in panielli, di 180-250 grammi l’uno, che il pizzaiolo pirla sotto ai palmi per formare le caratteristiche palline. Vengono sistemate nelle apposite cassette per la seconda lievitazione, che dura solitamente 5-6 ore a temperatura ambiente.

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Finalmente si stende la pizza, sotto le mani esperte del pizzaiolo: con pochi sapienti gesti saprà dare la forma corretta, allargando e arrotondando il disco di pasta, spingendo i gas lungo la circonferenza, in quello che diventerà il cornicione.
Si condisce, si sposta sulla pala e si inforna. Il Disciplinare prevede una cottura di 60-90 secondi in forno a legna con temperatura di 430-480°C tra platea e volta.
Per i pizzaioli alle prime armi c’è una netta distinzione tra chi stende e farcisce la pizza e chi inforna e controlla la cottura: solo una solida gavetta in entrambe le prestazioni decreterà poi il pizzaiolo a tutto tondo.
La cottura nel forno a legna è davvero il punto che fa la differenza con quella cotta nel forno di casa, che mai arriverà a quelle temperature. Si può ovviare parzialmente cuocendo la pizza sulla pietra refrattaria fatta arroventare per un’ora nel forno alla massima temperatura: in questo caso il tempo di cottura sarà di qualche minuto.

E buona pizza a tutti!

FONTI
Caputo, W.; Pugno L.; La pizza al microscopio – Edizioni Gribaudo
Giorilli, P.; Lauri: S.; Il pane – Franco Lucisano Editore
Mattozzi, A.; Una storia napoletana – Pizzerie e pizzaiuoli tra Sette e Ottocento – Slow Food Editore
De Boucard, F.; Usi e costumi di Napoli – Edizioni Polaris
Serao, M.; Il ventre di Napoli – Edizioni Rizzoli
Artusi, P.; La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene – Edizioni Giunti
Vocabolario Enciclopedia Treccani – http://www.treccani.it/vocabolario/pizza/
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/09/patrimonio-dellunesco-la-pizza-napoletana-prenota-un-posto-a-parigi-un-milione-di-firme-per-la-candidatura/2530582/
http://www.pizzanapoletana.org/index.php
http://www.pizza.it/

Partecipano come contributors:

Anna Calabrese, La pizza fritta
Valentina De Felice, Le Montanare
Tiziana Bontempi, Pizza con lievito madre
Sara Grissino, Pizza Lunga Lievitazione

11 commenti

  1. Quando la conoscenza e la competenza si uniscono escono dei post che affascinano come questo, complimenti ad entrambe per aver saputo ricostruire la storia di un prodotto gastronomico senza tempo che ci caratterizza in tutto il mondo.

    1. Cara Serena sono proprio contenta che ti sia piaciuto questo articolo, io e Cinzia ci siamo buttate a capofitto e con grande passione sull’approfondimento di un simbolo così importante dell’italianità.
      Grazie di cuore
      Maria Teresa

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