La Cucina di Montagna

Pubblicazione: 22 Agosto 2016

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Settimana della Cucina di Montagna

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La Montagna: o si odia o si ama. E amare la montagna significa sentire quella maestosità, quel senso di potenza e di forza che incutono una sorta di rispetto. Significa amare il senso di interiorità e quella forma di silenzio meditativo che certi scenari portano con sé; qualcosa di fronte a cui l’animo umano difficilmente rimane indifferente. Facile, invece, è entrare in raccoglimento, in osservazione e sintonia con il paesaggio. Quasi una forma di chiusura – seppure introspettiva – quella che avviene a livello emotivo in questi luoghi così solitari e lontani, ma non di meno carichi di un patrimonio culturale immenso.
“Montagne” sono i rilievi con quote a partire da 600 m di altitudine; secondo questa definizione, in Italia abbiamo scenari di montagna praticamente lungo tutta la penisola, a partire dall’arco alpino, passando per le Alpi Marittime fino ad arrivare ai rilievi del Gran Sasso, dell’Aspromonte e della Sila. Nemmeno le nostre isole sono immuni da questa definizione scientifica, basti pensare al Gennargentu, alla Barbagia e al Suprammonte della Sardegna e all’Etna che con i suoi oltre 3300 m svetta sulla Sicilia.
In epoche in cui gli scambi avvenivano a piedi o a dorso di mulo, su per mulattiere e sentieri impervi, è facile intuire come quest’aspetto abbia di fatto tagliato fuori ampie zone montane dagli scambi commerciali; scambi non inesistenti, ma contenuti, piuttosto, a certi periodi dell’anno, quando la stagione e il clima rendevano più agevole spostarsi. E forse è proprio grazie a questo aspetto che la Montagna trova e definisce la sua identità più forte in una chiusura che va intesa anche nell’accezione positiva dello sfruttamento intelligente del territorio e di tutela delle tradizioni: la stessa che trova nella sua cucina una delle proprie espressioni più alte.
La Cucina di Montagna nasce e si impronta inizialmente e soprattutto come cucina di sussistenza: abita qui la “necessità che si fa virtù” ed è proprio grazie a questo che la sua popolazione è riuscita nel tempo a trasformare i preziosi doni della terra in piatti tradizionali dal gusto unico. Pur nelle tipicità delle aree climatiche, la cucina montana ha come comune denominatore l’utilizzo accurato di tutte le risorse che il territorio offre, in modo da poter soddisfare l’abbondante bisogno di energie richiesto dal vivere in un ambiente per lo più inospitale. Gli antichi ricettari scarseggiano di antipasti, perché il duro lavoro in montagna richiedeva piatti sostanziosi; per contro, molto diffuso risulta essere il piatto unico con grassi e proteine, dove i cereali erano un contorno, mentre la cena spesso era fatta solo di pane e latte o castagne, o minestra di erbe e un po’ di formaggio. I dolci erano molto rari, spesso preparati con pane raffermo e mele. Il burro, che altrove era considerato il condimento dei ricchi a causa delle oggettive difficoltà di conservazione in fase di trasporto, è in questi luoghi invece il condimento più diffuso: forse proprio grazie al fatto di essere una produzione locale, che non necessitava, dunque, di alcun trasporto.
La difficoltà logistica di acquistare ingredienti non autoctoni, oltre che la scarsità di territori coltivabili, ha maturato l’attitudine a contare molto anche sui i prodotti del tutto spontanei, che sono vari e numerosi, taluni anche eccellenti, come funghi, castagne, mirtilli e lamponi, oltre alle preziose erbe selvatiche commestibili; i pesci si limitavano alle specie diffuse in laghi e torrenti, come trote e salmerini mentre l’apporto proteico delle carni era affidato alla caccia di cervi, caprioli e cinghiali.
II filo conduttore che unisce tutte le cucine di montagna affonda le sue radici nella grande capacità della popolazione locale di gestire il proprio territorio e, per così dire, di “piegarlo” nella sua conformazione geologica per valorizzarne le potenzialità. Spesso si tratta di piccole porzioni di territorio, talvolta infelici, ma sempre sfruttate al meglio, ciascuna per la sua peculiarità: terrazzamenti per le viti, appezzamenti anche piccoli purché ben esposti per le mele. Ne sono un ottimo esempio la val d’Adige e le valli laterali di Non e Venosta, che hanno reso proficuo un territorio non sempre accogliente ma carico, insieme al clima, di grandi potenzialità.
Un altro aspetto importante che ha determinato il fiorire di alcune economie di piccola scala in luoghi tanto chiusi agli scambi è rappresentato dallo sviluppo dei metodi di stagionatura e conservazione degli alimenti. Le brevi stagioni non consentivano di protrarre troppo a lungo le colture ed ecco che si faceva avanti la necessità di sfruttare l’abbondanza nel momento favorevole della stagione: con opportune tecniche di conservazione, era possibile trasformare i prodotti e metterli a dispensa per l’inverno. Tra le più utilizzate in montagna, in funzione del microclima locale, troviamo l’essiccazione, l’affumicatura, la fermentazione, le conserve in olio, in aceto, in sciroppo di zucchero e in alcool.
Talune preparazioni nel campo della conservazione sono divenute nel tempo espressione di grande eccellenza e importanti produzioni di nicchia, al punto da rappresentare ancor oggi un’importante risorsa economica: pensiamo allo speck tirolese e al prosciutto affumicato che troviamo a Trieste, alla frutta disidratata, ai formaggi stagionati nel fieno di malga o in grotta, alle birre ed ai vini eccellenti che si producono in queste zone.

Foto di Marina Bogdanovic

Foto di Marina Bogdanovic

L’arco alpino e le Dolomiti
L’arco alpino si estende da ovest con la zona di confine italo francese e svizzera ad est verso il confine sloveno, passando dal centro per l’Alto Adige, che confina con la zona a sud del Tirolo austriaco.
La catena montuosa più alta e imponente d’Europa si presenta con quote che passano dai 1000 ai quasi 5000 m in brevi spazi. Come sempre accade quando si parla di luoghi di confine, le culture si fondono e si legano alle tradizioni reciproche, attraverso scambi che investono più piani, da quello folcloristico e popolare, a quello riguardante l’uso e la gestione del territorio e delle coltivazioni. Le colture rese possibili dal clima a queste quote sono quelle che non necessitano di grande calore per crescere e che, soprattutto, sopportano gli sbalzi termici. Per questi motivi nelle regioni alpine, tanto ad ovest quanto ad est, venivano e vengono tuttora coltivati cereali molto rustici, come orzo, segale, avena, mais, rimanendo la farina bianca quasi sconosciuta. Tra gli ortaggi, molto diffuse le coltivazioni delle crucifere (ogni sorta di cavolo), di legumi come piselli e fagioli, oltre che le immancabili rape e patate, che ancora oggi facilmente si coltivano nei piccoli orti casalinghi. La frutta presente sul territorio montano fatica a giungere a maturazione completa, ma vicino alle case non mancano mai almeno un melo, un castagno e un noce. Il castagno ha un ruolo determinante nell’apporto calorico alla dieta montana, poiché le castagne sono, di base, un carboidrato molto nutriente.
La vite viene coltivata sviluppando tecniche particolari e selezionando vitigni resistenti all’ambiente.
Molto frequente è l’uso e la conservazione dei funghi.
Le carni utilizzate sono di bovino, suino e selvaggina da pelo, dal cervo al camoscio alla lepre. Diffusa qui è l’abitudine di conservare le preziose carni essiccandole o affumicandole, complice l’aria montana fredda e asciutta. Troviamo lungo tutte le Alpi una gran varietà di salumi come le mocette valdostane, la bresaola valtellinese e lo speck trentino. E ancora, eccellenze come i prosciutti di San Daniele o di San Marcel.
Anche la legna da ardere in montagna è preziosa: per questo motivo il pane si cuoceva nei forni comuni, una volta o due all’anno e si consumava poi secco, ammollato in zuppe o latte. Oggigiorno naturalmente non è più così, ma la cucina di montagna è rimasta fortemente caratterizzata dall’uso del pane raffermo, tanto in zuppe quanto in dolci.

In Valle D’Aosta la cucina è sempre stata molto varia, avendo accolto elementi della gastronomia romana, Sabauda (dal XI sec.), francese e svizzera. Le legioni romane che vi s’insediarono portarono le loro tradizioni alimentari, legate in parte alla caccia, ma prevalentemente all’uso dell’orzo nelle zuppe. A quell’epoca risale anche l’introduzione della coltivazione della vite. L’assenza di coltivazioni di frumento ha portato ad una mancanza pressoché totale dell’uso della pasta, e la carne fresca è stata a lungo un alimento raro. Qui si è sempre macellato il maiale per ricavarne salami, salsicce, lardo e sanguinacci, indispensabili per superare i rigidi inverni. Per tradizione in Valle d’Aosta è interessante la selvaggina preparata in “civet“, una tecnica di cottura che prevede l’uso del vino rosso aromatizzato da spezie ed erbe, a cui vengono aggiunti, a fine cottura il sangue e il fegato dell’animale stesso. Molto noto e apprezzato è il civet di lepre. Ultima, ma non certo per importanza, è la grande ed eccellente produzione valdostana dei formaggi, tra i quali la Fontina DOP, che caratterizza uno dei piatti divenuti nel tempo quasi un emblema della cucina di questa zona, la Fonduta Valdostana.

Altre zone montane del Nord-Ovest
In alcune valli piemontesi si consumano normalmente le rane, un po’ ovunque le lumache.
Dalla Liguria al Piemonte passava la via del sale e uno dei suoi tracciati attraversava Elva, zona occitana da cui in inverno gli uomini scendevano in Liguria per acquistare le acciughe e rivenderle in giro per le valli; ancora oggi esiste una congregazione di acciugai e spesso le acciughe salate vengono utilizzate nelle ricette locali. In giugno c’è anche una fiera a loro dedicata.
Nel Biellese era tipico l’uso dell’olio di noci come condimento e il residuo di lavorazione, in tema di riciclo e valorizzazione di ogni “risorsa”, veniva consumato spalmato sul pane caldo.

Nell’enclave Walser delle valli attorno al monte Rosa, troviamo una cucina di stampo tedesco dovuta alla colonizzazione di popolazioni vallesi scese attraverso i passi montani, che vede un maggior uso di carni suine, speck, wurstel e salsiccette nere preparate con il sangue di maiale.
Spostandoci ad Est, in Lombardia e in Veneto la base dell’alimentazione quotidiana passa dal pane raffermo elaborato in zuppe alla polenta e al grano saraceno. I pizzoccheri valtellinesi ne sono l’esempio principe.

In Trentino Alto Adige, ampio territorio di influenza austriaca, si usano maggiormente orzo, segale e grano saraceno (le cui farine utilizzate soprattutto per il pane) e le patate assumono un ruolo preponderante nella cucina quotidiana. Ritorna l’uso del pane raffermo, tipicamente nella preparazione dei canederli. Le carni suine o bovine sono spesso cucinate a lungo e in umido, quasi come una zuppa, ne sono un esempio i goulash di influenza mitteleuropea.
L’abbondanza di frutti selvatici viene sfruttata conservandoli per l’inverno con l’essiccazione o anche con la produzione di marmellate.
Rispetto ad altre zone alpine, aumenta qui la presenza di ricette dolci: vi si trova lo Zelten (dolce natalizio), il Kaiserschmarrn (frittata dolce), lo Strauben (frittelle dolci) e lo Strudel, tipico dolce di derivazione asburgica, in virtù della secolare unione dei territori del Trentino e dell’Alto Adige sotto la monarchia dell’Impero austro-ungarico.

La cucina delle Alpi friulane è influenzata sia dalle tradizioni austriache che da quelle slave. In queste zone la polenta ha sempre un ruolo chiave come base dell’alimentazione. Grande è l’utilizzo di carni di selvaggina, orzo, cavoli, rape, patate. Tipica è la Jota, una zuppa di fagioli, patate e cavolo o rape inaciditi e diffusi sono i Cjarson, specie di ravioli di patate con ripieno di erbe, formaggio o dolce.

zuppa diavoli rossi

Zuppa montanara con fagioli diavoli rossi, di Cinzia Martellini Cortella

L’Appennino
In tutto l’Appennino la castagna ha avuto, ed ha ancora oggi, un’importanza enorme, sostituendo quella che lungo l’arco alpino era la polenta di mais. L’allevamento di pecore e capre sostituisce quello vaccino e, di conseguenza, nell’alimentazione delle regioni appenniniche troviamo essenzialmente prodotti derivati da questi animali, oltre che dal maiale. Gli arrosti e umidi diventano di agnello, i formaggi sono di pecora e capra. Il maiale fornisce le carni da conservare per l’inverno, salate o essiccate, e la festa dell’uccisione del maiale è una delle rare occasioni in cui si consumano abbondantemente le parti non conservabili.
Il condimento preferito diventa l’olio di oliva, che sostituisce quasi totalmente il burro della cucina alpina. In alternativa si usano i grassi animali, in particolare lo strutto.
In Liguria la cucina montana si basa principalmente sull’utilizzo di pane scuro, spesso con aggiunta di farina di castagne, e patate, erbe selvatiche e verdure degli orti per preparazioni elaborate come torte salate e ripieni, che rendano appetibili ingredienti altrimenti non utilizzabili. Le carni scarseggiano e quelle che si consumano sono soprattutto conigli e galline. Molto utilizzate come fonte proteica sono le lumache. L’allevamento è soprattutto di ovini e qualche maiale. In un clima rigido e un territorio altrettanto ostile, la fonte principale di energia proviene dal castagno, tanto che si parla di una vera e propria civiltà del castagno: di questa pianta era utilizzato tutto, dal legno per i mobili e per il riscaldamento, alla farina dolce che era un’ottima base per zuppe, pani, pasta e dolci. Famosi sono i “necci“, tipici della zona fra Liguria e Toscana, emblematici di quest’alimentazione di sopravvivenza: una sorta di piade preparate con una polentina di farina di castagne, cotte sulla pietra fra due foglie di castagno e gustate con ricotta fresca di pecora, irrorate da un filo di miele.
Nell’Appennino tosco-emiliano e romagnolo si alleva anche il maiale con tutto il ciclo alimentare che ne deriva: dalla carne conservata ai salumi, alle feste paesane per consumare quello che non si poteva conservare. Le carni erano comunque sempre riservate ad un consumo occasionale, o utilizzate in minima quantità per arricchire pietanze altrimenti povere come le zuppe di legumi ed erbe. Il pasto quotidiano si riduceva spesso a pane e formaggio con un bicchiere di vino o poco più, magari una frittata di erbe.
Nell’Appennino umbro-marchigiano troviamo maggiore uso di selvaggina da pelo e piuma e largo uso di erbe spontanee e funghi. Le radici della cucina umbra affondano nella civiltà degli Umbri e dei Romani, che vede il frequente uso di legumi e cereali. Il cereale maggiormente utilizzato qui è il farro, mentre si fa largo uso di legumi come fonte principale di proteine, magari insaporiti con un pezzetto di pancetta o un osso di prosciutto, se si era fortunati. Famose le lenticchie di Castelluccio, ma anche ceci e cicerchie. Tipica anche in queste regioni la lavorazione del maiale e la produzione di salumi, in particolare nella zona di Norcia, da cui deriva il termine italiano “norcino” per indicare il produttore e il venditore di salumi.

La cucina dell’Appennino abruzzese
E’ in origine una cucina molto povera, basata sul consumo di zuppe di legumi, di erbe selvatiche, di pane di farine miste, vino e formaggi di pecora.
Bruschette e panzanelle (senza pomodoro) spesso sono l’unico piatto consumato. A sera un piatto di minestra di legumi e pane di granoturco.
Le carni ovine, consumate raramente, erano occasione di festa; si arrostiva la pecora intera che veniva distribuita a tutta la comunità riunita. Al giorno d’oggi è rimasta la tradizione di consumare gli arrosticini di pecora. La montagna abruzzese fornisce prodotti di eccellenza come le patate, i ceci e lo zafferano aquilani.
Scendendo lungo l’Appennino meridionale anche la cucina di montagna risente del clima più caldo e asciutto. L’asprezza del territorio, l’estrema povertà e l’isolamento delle piccole comunità di montagna hanno generato una cucina basata su ingredienti semplici ed essenziali. Il pane rimane un alimento base, insieme alle verdure coltivate o selvatiche, per zuppe corroboranti.

La zona dell’altopiano della Sila, ricca di pini e abeti, pascoli ed estese zone boschive, è in realtà ricchissima di funghi, con un’ampia biodiversità e una disponibilità che copre quasi tutti i periodi dell’anno. Questa particolare risorsa territoriale ha fatto sì che nel tempo si sia sviluppata una vera e propria economia, su piccola scala, attorno alla quale la raccolta e la conservazione di questi vegetali sono divenute tra le attività di maggiore importanza.
La caratteristica di molti locali di montagna è, appunto, un menu a base di funghi, prodotto sempre più apprezzato e ricercato dalla clientela. I funghi vengono cucinati in vario modo, per lo più assieme alla carne che prevalentemente è di capra, capretto e maiale. Il re dei funghi è sicuramente il porcino, molto frequente anche al Nord, ma si trovano anche altre varietà, conosciute e comuni sulle nostre tavole come i chiodini, i galletti, i “rositi“ (nome derivato dal colore rossiccio), gli ovoli.
I principali tipi di pasta casalinga sono i maccheroni, i cavatelli, le “lagane”, un formato di pasta più piccolo e più lungo di una normale lasagna. Se ne faceva essenzialmente un piatto unico, condita con olio o strutto, a volte insaporita con cipolla e peperoncino o con un cucchiaio di ndujia e, nelle feste, con un ragù di carne che sfruttava le parti di minor pregio dell’animale e saziava tutti.
La carne, per lo più di maiale, si mangiava solo durante le feste religiose o durante la macellazione, che era anche qui occasione di vita sociale per tutta la comunità. Nemmeno queste zone montane si sottraggono alla necessità di conservare le carni: insaccati e salumi, essiccati o conditi, qui, con un potente conservante, il peperoncino. La Nduja ne è l’espressione più famosa: morbido insaccato rosso per l’aggiunta di peperoncino piccante, ne basta un cucchiaino per insaporire un semplice piatto di pasta all’olio. Scaldata leggermente e spalmata sul pane era un pasto già ricco; oggi è uno spuntino delizioso.
Qualche volta si cucinava la pecora, se moriva di vecchiaia, servita in zuppe o stufati dalle lunghe cotture, per rendere commestibili le carni dure.
Il pane era soprattutto di castagne, segale o un misto di orzo e avena. Il consumo abbondante di legumi, fagioli e fave sopperiva alla mancanza di altre proteine. I pastori, più fortunati, integravano la dieta con i latticini.

Il naturale proseguimento dell’Appennino calabro sono le catene montuose della Sicilia.
Qui la montagna più alta e importante è l’Etna. L’altitudine di oltre 3300 m ne fa un ambiente montano a tutti gli effetti. La cucina montana siciliana era in origine basata su cereali e legumi, arricchita da qualche latticino di pecora; eccezionale è la ricotta, che viene servita ancora oggi calda appena fatta, e occasionalmente la carne di maiale. Ad integrare la dieta c’erano i prodotti del bosco come funghi, bacche, frutti.
Il vino era un’indispensabile aggiunta energetica al pasto.
Al giorno d’oggi la maggiore disponibilità alimentare ed economica fa sì che il piatto principe proposto nelle zone montane siciliane sia la grigliata di carne di maiale, resa squisita dalla dieta di ghiande e carrube. Un particolare cenno merita il suino nero dei Nebrodi, anche detto suino nero delle Madonìe, razza autoctona allevata allo stato semibrado nel parco naturale dei Nebrodi: la produzione norcina d’eccellenza di queste zone si ha dalle carni di questo suino, tutelato da Presidio Slow Food, in quanto la popolazione di questo suino ha avuto un rapido declino negli ultimi decenni, attestando oggi il suo numero complessivo a poco più di soli duemila esemplari.

La Sardegna è da sempre considerata simbolo della civiltà pastorale: la tradizione della cucina tipica sarda familiare vanta radici pastorali molto antiche. Nei tempi passati, infatti, questa regione era abitata prevalentemente nelle zone boschive dell’entroterra; mentre le coste, a causa delle invasioni punico/fenicie o anche per l’ambiente considerato poco salubre, erano quasi deserte. Ancora oggi l’allevamento caprino e ovino rappresenta l’attività economica più importante e ciò si riflette in una cucina dove agnello e capretto, ma anche maiale e cinghiale, la fanno da padroni, esaltati da una semplice cottura alla brace e dalle profumatissime erbe spontanee di cui si fa un grande uso.
La varietà di carni si arricchisce spesso di cacciagione, specie di piccoli animali.
Il più caratteristico dei salumi sardi è il prosciutto di montagna, di maiale o cinghiale; anche la salsiccia, secca o affumicata, è considerata il salume simbolo dell’isola.
Particolare il pane spesso a pasta soda, in molte forme, gustosissimo e di lunga conservazione. Il più tipico resta il Pane Carasau, non lievitato e sottilissimo, con cui si fa il Pane Frattau, sostanziosa minestra corroborante fatta di veli di pane, brodo di pecora, uovo e formaggio pecorino. Proprio la minestra è regina della tavola di montagna, nutriente e corroborante con brodo di pecora o con legumi, specialmente fave.

Fonti:
http://www.taccuinistorici.it/ita/news/contemporanea/cucina-regionale/Tradizioni-cucina-valdostana.html
http://vinoecucina.forumfree.it/?t=60338800
http://www.emmeti.it/Cucina/Calabria/Storia/Calabria.ART.188.it.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Comunit%C3%A0_montane_italiane_per_regione
http://www.fieradegliacciugai.it/storia_acciugai.aspx
https://it.wikipedia.org/wiki/Alpi_italiane
https://it.wikipedia.org/wiki/Appennini
https://it.wikipedia.org/wiki/Necci
http://www.abruzzoeappennino.com/2014/12/31/scrittori-tavola-ignazio-silone-e-il-cibo-dei-poveri/
http://www.fondazioneslowfood.com/it/presidi-slow-food/suino-nero-dei-nebrodi/
http://www.gambarie.it/cucinatipica.php
http://www.mondosardegna.net/cucina/cucina.htm
http://www.charmingsardinia.com/sardegna/cucina-sarda.html
Foto di testata: Vittoria Traversa

Partecipano come contributors:
Antonella Eberlin, Turta de vacch
Erica Zampieri, Kaiserschmarren Frittata dolce di Parcines
Lucia Melchiorre, Insalata di patate tirolese
Sara Sguerri, Tortelli alla Lastra del Casentino
Tamara Giorgetti, Testaroli pontremolesi
Daniela Ceravolo, La tradizione della capra in Aspromonte
Fausta Lavagna Le Raviole della Val Varaita
Silvia Leoncini, Montemale e il Tartufo Nero nel Risotto
Daniela Boscariolo, Gnocchi con la Fioreta di Recoaro Terme

4 commenti

  1. un meraviglioso articolo, preciso ed esauriente, per un argomento così vasto e affatto “semplice”. Brave!
    Anch’io mi sono cimentata in un piatto di alta montagna; quella montagna in cui ho passato moltissime estati della mia infanzia e giovinezza… Cinzia, lo sai, sto parlando della Val Varaita dove credo anche tu abbia lasciato un pezzettino del tuo cuore 🙂
    http://caffecolcioccolato.blogspot.it/2016/08/le-raviole-della-val-varaita.html

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