La Cucina di Frontiera

Pubblicazione: 18 Aprile 2016

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Settimana Nazionale della Cucina di Frontiera

Ambasciatrice Marina Bogdanovic per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

Parlare di cucina di frontiera senza spiegare che cosa si intende con i termini cucina e frontiera non ha senso. La cucina, intesa come modo di nutrirsi e di seguito come modo di vivere i rapporti fra persone che condividono lo stesso territorio,per continuare a vivere e innovarsi (insieme alle persone che rappresenta) deve cambiare continuamente, adattandosi alle nuove condizioni,guardarsi dentro senza chiudersi nelle proprie radici e non smettere mai di confrontarsi con il prossimo. Guardando così la cucina diventa un’espressione importantissima dell’identità culturale di un popolo. Come dice Massimo Montanari: “le identità – alimentari e di qualsiasi altra natura – non sono inscritte nei geni di un popolo o nella storia arcaica delle sue origini, ma si costruiscono storicamente, nella dinamica quotidiana del colloquio fra uomini, esperienze, culture diverse.”

L’identità non si cerca nel passato ma si crea nel tempo, non esiste da sola ma nasce di generazione in generazione come conseguenza degli avvenimenti accaduti alle persone; essa non ha una forma precisa e immutabile ma si presenta come un processo dinamico. L’identità è la vita stessa di una comunità di persone; da non confondere l’identità con le radici, però. Mentre l’identità siamo noi, le radici sono le nostre origini, la storia che abbiamo vissuto. Ma le radici da sole non dicono nulla se non sappiamo da dove arrivano e, soprattutto, se non ci rendiamo conto di quanto sono profonde e complesse. E più ramificate sono, più scopriamo che quello che chiamiamo “nostre radici” di nostro hanno ben poco. Le radici sono sotto di noi per ricordarci quanto sono complicati e attorcigliati i fili delle vicende storiche che ci hanno preceduto e dalle quali non possiamo prescindere. E ce lo ricorda sempre Massimo Montanari : “La ricerca delle proprie radici finisce sempre per essere la scoperta dell’altro che è in noi. Un altro che, attraverso complicati processi di osmosi e adattamento, in vari modi ha contribuito a farci diventare quello che siamo. Proprio per questo parliamo di identità culturali che si costruiscono nel tempo, mediante il confronto e lo scambio.”
Le radici sono la storia, l’identità siamo noi. Le radici sono il passato, mentre l’identità siamo noi che viaggiamo nel presente, lo stesso presente che un domani diventerà un’identità diversa.

E le frontiere?

Ignorando le frontiere politiche, che purtroppo difficilmente possono essere ignorate, potremmo dire che la frontiera è una linea immaginaria o meno che separa due modi diversi di concepire il vivere quotidiano. Le frontiere sono spesso state i muri che separavano, ma nello stesso tempo anche le finestre che si spalancavano per far entrare, volendo o non volendo, aria nuova, oppure le porte che una volta aperte non riuscivano a chiudersi mai più. La storia ha sempre, come il vento, spostato continuamente persone, non solo per fare guerre e invasioni, ma anche per sviluppare le vie di commercio, scambiare le conoscenze, portare le proprie idee e religioni; ma anche scappare per gli stessi motivi, per creare nuovi legami con i matrimoni e le amicizie. Però i fatti storici di per sé hanno una scarsa importanza se non producono dei significativi cambiamenti all’interno della società. Prendendo come esempio gli spaghetti al pomodoro, sono arrivati fino a Milano non per la politica di Garibaldi o di Cavour, ma perché quella politica ha provocato l’immigrazione di un consistente numero di italiani del Meridione. Oppure gli arancini o le arancine, per continuare con gli esempi, non sono certo arrivati già fritti nelle tasche degli invasori arabi quando hanno invaso la Sicilia verso la metà del IX secolo, ma sono nati da un lungo vivere insieme di due culture, quella occupante e quella occupata. Molto probabilmente sono nati come rielaborazione dell’uso arabo di mangiare in un solo boccone il riso e la carne, che la straordinaria capacità di osservazione e di assimilazione degli abitanti della Sicilia, in questo caso, ma sarebbe successo ovunque, ha trasformato in un cibo sfizioso e soprattutto nuovo, diventato a distanza di moltissimi anni uno degli emblemi della cucina siciliana. Quando un prodotto “nuovo” viene introdotto nell’uso in cucina di un territorio, allora quel territorio può essere considerato la frontiera della diffusione di quel prodotto. Il riso in Sicilia, Campania e successivamente nel Settentrione d’Italia, il cous cous sempre in Sicilia ma anche nelle sue forme simili e diverse in Sardegna e in Liguria, lo zucchero, le spezie, le patate, il mais, il pomodoro, la pasta lunga, inizialmente erano cuscinetti che indicavano la linea oltre la quale non si espandeva la diffusione di quello specifico alimento.

Solo dal momento in cui una preparazione nuova comincia ad entrare nell’uso quotidiano della popolazione autoctona, trasformandosi dalle mani, dalla fantasia e dalla creatività ma, soprattutto, dal buon senso delle donne nelle pietanze accettate e riconosciute dalla comunità, possiamo parlare di un cambiamento vero, vissuto e della fine, seppur momentanea, del processo. “Se il prodotto è nuovo, antico è l’impiego che se ne fa” ce lo dice sempre Massimo Montanari, continuando: “ricondurre le novità alla tradizione, rileggerle, reinterpretarle a partire dalla propria esperienza, da specifiche vocazioni culturali oltre che ambientali e produttive. La polenta di farina gialla non faceva parte delle tradizioni alimentari dell’America precolombiana; da noi fu l’uso pressoché esclusivo a cui quel cereale fu assoggettato”.

Le cucine di frontiera delle valli dell’arco alpino, partendo da quelle che separano la Provenza dalla Liguria, passando da quelle che dividono la Svizzera dalla Valle d’Aosta o dal Piemonte e da quelle Lombarde per arrivare all’estremo est friulano che confina con l’attuale Slovenia, sono realtà gastronomiche rimaste nascoste e isolate per secoli, dove l’antico modo di mangiare, condizionato dagli scarsi e sporadici contatti con il resto della popolazione all’interno del paese, si è mantenuto fino a oggi.
Il loro isolamento non è dovuto solo all’isolamento naturale, quello geografico, ma dipende dalla storia stessa delle popolazioni che abitano nelle valli, come anche dalle esperienze lavorative che hanno sviluppato all’interno di un particolare sistema socio-economico.

Dichiarati eretici già dalla fine del XII secolo e perseguitati successivamente dall’Inquisizione, i Valdesi, solo per fare un esempio, sono stati costretti a rifugiarsi nelle valli del sud della Francia e in quelle del nord ovest dell’Italia (arrivando anche in Calabria e in Puglia). Vivendo quasi ghettizzati nei villaggi di alta montagna e dovendosi adattare alle dure leggi della natura, hanno sviluppato una cucina senza nessuna restrizione, senza sprecare nulla, utilizzando tantissime erbe e fiori dei prati. I Walser, la popolazione di antica lingua tedesca, hanno seguito un percorso simile senza dover nascondersi e temere per la propria vita, ma spostandosi di valle in valle, dalla Svevia scendendo a cavallo fra il XIII e il XIV secolo verso il Monte Rosa, in cerca di pascoli nuovi per allevare il bestiame e terre ospitali per coltivare frumenti, segale e orzo. I loro villaggi autosufficienti e indipendenti da un lato e i rapporti di commercio nei territori di lingua tedesca dall’altro hanno garantito la loro sopravvivenza e facilitato non poco il mantenimento del loro antico modo di vivere.

Le frontiere, qualsiasi cosa esse dimostrino o confermino, non sono mai linee rigide o fossati insuperabili. Possono e devono essere solo ed esclusivamente le testimonianze del vissuto collettivo, le tracce di un cammino percorso insieme, le memorie di quello che alcuni di noi erano, e un accenno dell’idea di quello che eventualmente saremo tutti noi insieme.

Bibliografia e fonti web:

Massimo Montanari, L’identità italiana in cucina
Massimo Montanari, Il mondo in cucina.Storia, identità, scambi
Giovanni Rebora, La civiltà della forchetta
Capati, Montanari, La cucina italiana storia di una cultura
www.corriere.it
www.lyshaus.com
Partecipano come contributors:
Sara Sguerri, Koch de Gries, il Budino di Semolino di Trieste
Sonia Nieri, Schuttelbrot il pane al cumino del Tirolo
Alice Del Re, La cucina di Carloforte: una enclave ligure nel mare sardo
Lucia Melchiorre, Cous Cous di pesce
Fausta Lavagna, cucina di confine ligure-provenzale: il brandacujun
Giulia Robert, La cucina Walser
Elena Arrigoni, Tòrta da pén
Bellettieri Carmensita, I riti della cucina arbereshe in Basilicata /Grur ma arra, 
Betulla Costantini, Supa Barbetta
Anna Laura Mattesini, Cucina di Frontiera: il Kabunì Arbëreshë
Silvia Leoncini, La Cucina di Frontiera nel Cuneese
Antonella Marconi, Lo Strudel Ampezzano

15 commenti

    1. È un tema profondo e complesso e cercando di approfondire ci si rende conto sempre di più quanto poco sappiamo e quanto altro dobbiamo osservare e capire. Grazie Alice.

  1. Un bellissimo scritto. Credo farò mia la cit. di Montanari,quante volte ho sentito confondere il concetto di “radici” con la “tradizione”, quante volte ho discusso con chi per tradizione intende “mogli (cibo) e buoi dei paesi tuoi”…. Davvero marina, articolo illuminante che condividerò sulla mia pagina
    Ciao!
    Alessia – MyIummy

  2. Spero che nessuno me ne voglia, ma penso che questo sia uno dei più belli articoli scritti finora sul calendario del cibo italiano.
    Grazie Maria, è stata una bellissima lettura.
    Tiziana

  3. Un articolo che rappresenta appieno la filosofia del Calendario perché se siamo ciò che mangiamo dobbiamo sapere, anche, la provenienza e l’origine di ciò che mangiamo per arrivare all’attuale identità dei nostri piatti. Un percorso ben delineato, complimenti Marina

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