Mosto cotto, ficotto e sapa

ph. Sabrina Pignattaro

Pubblicazione: 7 Settembre 2016

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Giornata Nazionale del Mosto cotto, ficotto e sapa

“Vuole meditata attenzione,che tu non ceda all’impulso primo, che tu lo intenda non più come vino,ma come ricetta. Ti si fa allora subito gradevole; ci senti, viva la tradizione, il bisogno di una contadina riserva”
(L.Veronelli – Libro dei vini)

Mosto cotto, Sapa, Vincotto e Ficotto: non si tratta di un gioco di rime, ma dei cosiddetti “cotti”, prodotti di nicchia che ritroviamo nella storia enogastronomica di alcune regioni italiane.

Sono quelle piccole bontà che nascono dal felice incontro fra la necessità, l’arte dell’arrangiarsi e la sapienza contadina e che costituiscono una delle tante eccellenze poco conosciute del nostro territorio.
I primi due sono uno dei prodotti della vendemmia: il mosto d’uva sottoposto a cottura diventa Mosto d’Uva in Puglia, Sapa nelle Marche, Saba in Emilia Romagna e Sardegna, Sugo d’Uva in Calabria: a variare sono i tempi di cottura oltre a qualche accortezza della mano dell’uomo, come accade da secoli a Loro Piceno, il paese del vino cotto per eccellenza, quello abruzzese, dove alla riduzione di mosto si aggiunge del vino.

Arriva poi il momento dei fichi ed ecco che in Basilicata e Puglia troviamo il Mosto di fichi o Ficotto , ma se ad abbondare sono i fichi d’india torniamo in Sardegna per la Saba di ficu morisca.
Troviamo curiosamente anche il termine di Vincotto al nord e precisamente in Veneto dove così viene chiamata una “marmellata dei poveri”: nel mosto d’uva si fanno bollire mele e zucca a pezzi sino ad ottenere una dolce confettura.

Excursus storico culturale
il vino era molto apprezzato già ai tempi dei Romani.
[…] presso gli antichi Romani venivano prodotti e variamente consumati diversi tipi di mosti cotti, fra quelli più frequentemente menzionati nelle fonti scritte si devono ricordare il caroenum, il defrutum e la sapa. Tutti e tre questi mosti venivano concentrati tramite ebollizione e si differenziavano a seconda della percentuale di acqua residua (Enciclopedia Treccani).
Infatti il Caroenum (il vino cotto dei romani) era tra i vini che riscuotevano più ammirazione, al pari di Passum e Vinum conditum.
Invecchiato in apposite anfore sigillate, veniva commercializzato anche fuori della regione di produzione perché, a differenza di altri vini ,“reggeva bene il trasporto”.
Plauto, nel 191 a. C., sceglie il vino cotto per un lauto banchetto (Pseudolus) e più tardi Plinio il Vecchio (23-79 d. C.) nella sua Storia Naturale annovera il vin cotto fra le bevande dolci più ricercate e ne descrive cosi la preparazione: “ingenii, non naturae opus est, musto usque ad tertiam partem mensurae decocto”
(E’ frutto dell’ingegno, non della natura, poiché si tratta di mosto cotto fino ad un terzo del suo volume).

Sempre Plinio consiglia come si debba procedere all’ebollizione del mosto rispettando un preciso calendario lunare: “il mosto deve essere cotto solo quando la luna non si vede , per essere congiunta con il sole”. La medesima tecnica di preparazione è tuttora mantenuta nel territorio piceno -marchigiano.

La Sapa ed il Defrutum sono anche i protagonisti delle prime sofisticazioni: Catone il Censore consiglia di aggiungerli ai vini con un basso contenuto di zucchero. Columella nel suo De Re Rustica ci rivela che la produzione del vino cotto derivasse da un’antichissima pratica greca e già ai suoi tempi era così diffusa che nel calendario dei lavori agricoli luglio era il mese delle Caroenarie (vasi per cuocere il vino dolce) e ottobre era il caroenum (il periodo del vino dolce cotto).

Il gradimento del vino cotto prosegui anche nei secoli successivi: nel Medioevo costituiva l’alternativa povera ai più costosi vini orientali a cui tanto somigliava e nel XVI secolo esso ottenne anche l’onore degli altari: Sante Lacerio lodò infatti a tal punto la bontà del vino cotto piceno da elevarlo alla dignità della Messa.
La sua fama è rimasta inalterata fino ai giorni nostri: lo troviamo citato ed elogiato nel Dizionario del Gourmet di di Felice Cunsolo, in Vini d’Italia di Bruno Bruni, e ancora ne In viaggio in Italia di G. Piovene e in “Vino al vino” di Mario Soldati.

La produzione
Anche se ogni regione ha un peculiare metodo di produzione, si tratta fondamentalmente di una riduzione del mosto (di uva o di frutta) a fuoco diretto: con l’evaporazione del liquido si aumenta la concentrazione di zucchero, il che preserva il prodotto dalle alterazioni a cui altrimenti sarebbe esposto.

Ma vediamo ora in particolare i nostri “cotti”: Mosto Cotto è un termine ampio, che include parecchi prodotti. Se ci troviamo in Puglia, questo probabilmente è il Vincotto, un mosto di vitigni rossi autoctoni pugliesi (soprattutto Malvasia, Primitivo e Negroamaro): fra i vari metodi di produzione c’è quello che parte dall’uva lasciata ad appassire sulle piante e poi su tralicci di legno. Dopo la pigiatura, il mosto viene fatto cuocere molto lentamente (fino a 12 ore) sino a ridurlo a circa un quinto del volume iniziale.
Il prodotto così ottenuto, molto denso, viene versato in piccole botti di rovere e fatto invecchiare per oltre 4 anni, ottenendo in tal modo un gusto ed un profumo unici. A dispetto del nome, il Vincotto non contiene né vino né alcool, né altri zuccheri aggiunti: la ricchezza di polifenoli, poi ne fa un prodotto dall’alto contenuto nutritivo. Esso è variamente presente nella cucina pugliese, sia nelle ricette della tradizione (cartellate, taralli neri, torrone) sia come salsa per accompagnare formaggi poco stagionati che con yogurt e gelati.

Con lo stesso procedimento del Vincotto si producono la Sapa marchigiana e la Saba romagnola.
Diverso invece è il Vino cotto delle Marche e dell’Abruzzo, un tipico prodotto enologico, eccellenza di questi territori. Le uve destinate alla produzione del Vino Cotto vengono raccolte con qualche giorno di ritardo rispetto alla raccolta dei vini crudi, al fine di permettere una maggiore concentrazione di zuccheri. Vengono poi poste in casse di legno e portate in cantina per essere pigiate: oggi tutto avviene meccanicamente, mentre in passato di pigiava nelle cosiddette “canali”, vasche in muratura preposte allo scopo. Il prodotto della pigiatura veniva quindi setacciato attraverso dei canestri cosi da separare gli scarti (bucce e vinaccioli) dal mosto. Quest’ultimo veniva poi versato in caldaie di rame non stagnato, di solito posizionate all’aperto, e fatto bollire per parecchie ore.
Durante la bollitura, una persona era sempre presente per schiumare e purificare il mosto: al termine, il prodotto veniva versato nelle botti ancora bollente e qui lasciato a fermentare per almeno 18 mesi, così da favorire l’aumento della gradazione alcolica, fra i 14°- 16°.
Il mosto così preparato non necessita di ulteriori trattamenti, né travasi né chiarificazione, ma resta inalterato per un tempo indefinito.

Usanze marchigiane
Le bottiglie ben tappate “si dimenticavano” in un angolo della cantina per poi spuntare nelle grandi occasioni che scandivano il corso della vita familiare: un figlio che si sposava, un nipote che nasceva o in occasioni delle feste tradizionali. Alla nascita del figlio maschio il colono era solito riempire un barile di vino cotto che poi veniva aperto e gustato nel giorno del suo matrimonio.

Un buon vino cotto faceva parte delle cure ricostituenti dei vecchi medici marchigiani, per il fisico e per lo spirito. Grazie al suo elevato grado alcolico, infatti, esso era una fonte di calorie in un’alimentazione povera.
Quando nasceva un bimbo la mamma, la nonna o la comare si riempivano la bocca di vino cotto, per riscaldarlo, e lo spruzzavano sulle gambette del neonato, credendo in tal modo di irrobustirlo.
Nella vita quotidiana, un po’ di vino cotto caldo aromatizzato con chiodi di garofano era un ottimo rimedio per il raffreddore. Frizioni di vino cotto caldo e rosmarino servivano ad alleviare i dolori reumatici. Esso teneva poi lontani gli spiriti maligni, le fatture, i malocchi: una bella lavata con il vino cotto spazzava via ogni sortilegio.
Anche nel momento della morte il corpo del caro veniva lavato con il vino cotto.
Un po’ di vino cotto serviva anche come tonico per gli animali stanchi e come ricostituente per quelli deboli. Inoltre, esso fungeva anche da disinfettante nella preparazione degli insaccati (le budella utilizzate venivano lavate in una mistura di vino cotto e aglio), oltre che da ingrediente per il Ciabuscolo.

Nella cucina di tutti i giorni, però, era più frequente l’uso della Sapa, termine di derivazione latina (da connettersi con “sàpor” e “sapidus”, avere sapore) che indica un concentrato di mosto ottenuto da lunghe bolliture (anche giornate intere), diffuso fra le Marche (Sapa), l’Emilia-Romagna (Saba) e la Sardegna (Saba)

La sapa praticamente è uno sciroppo d’uva che si ottiene dal mosto appena fatto: un tempo questo veniva filtrato e messo in un calderone di rame e fatto bollire a fuoco lento per circa 15 ore, schiumando continuamente. Si aspettava e si aspettava, controllandolo di frequente, sino a che non si riduceva ad 1/3 della suo volume iniziale: solo allora si spegneva finalmente il fuoco e si lasciava raffreddare in un tino di legno, altrettanto lentamente: in ultimo, si imbottigliava.

Caratteristiche
Si presenta come uno sciroppo dolcissimo, il colore va dall’ambrato al rosso violaceo, ha un intenso odore di caramello,
un sapore mielato, sapido e vellutato

Assieme al miele,  la Sapa costituiva il dolcificante dei tempi passati, quando lo zucchero era “roba per i signori”. La sapa veniva utilizzata anche come condimento, sulla falsariga dell’aceto balsamico, come leggiamo nelle testimonianze che seguono:

Ludovico Ariosto nella Satira III la cita come condimento delle rape:

In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco,
e mondo, e spargo poi di aceto e sapa,
che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.

Dal ricettario di Costanzo Felici vissuto a Piobbico nel 1500:

100 gr di sapa e 120 gr di aceto, si fanno cuocere a bagnomaria per 30 minuti,
il composto ottenuto si aromatizza con timo, santoregia e erba cipollina.
E’ un appetitoso condimento per piatti a base di carne e verdure…

Ancora oggi, la Sapa viene pazientemente prodotta da aziende che hanno un occhio di riguardo verso la propria terra ed usata per impreziosire le pietanze più disparate :

• la ritroviamo come condimento per ceci, fagioli, castagne;
• nel ripieno di ravioli dolci, nel “serpente” o dei tipici cavallucci dell’Apiro;
• nelle ciambelle nei biscotti e nelle “scorzette” che si producono ancora oggi a Petrioli: bucce di melone cotte nelle sapa con zucchero , cannella e chiodi di garofano, sino a diventare una confettura;
• nel Panpepato;
• usata per creare curiose bibite e granite… i nostri nonni stanchi e assetati durante il lavoro nei campi ne versavano un po’ in acqua fresca di pozzo ottenendo una bevanda fresca e gustosa; i bimbi aspettavano la prima neve dell’inverno per metterne un po’, ben pigiata, nei bicchieri e condirla poi con la sapa;
• un tempo usata anche per dare sapore e colore ai vini poveri;
• con la farina nuova di granturco si fa una polenta particolare condita con la sapa piatto fondamentale della Sagra della Sapa di Rosora in provincia di Ancona;
• buonissima sulle cipolle cotte sotto la brace;
• ottima su formaggi semi stagionati stagionati e erborinati;
• divina in associazione al lonzino di fichi.

Il Ficotto si ottiene schiacciando i fichi che vengono poi lasciati cuocere con l’acqua lentamente sino ad ottenere un prodotto concentrato. Se ci troviamo in Puglia saranno usati in particolar modo i fichi di una varietà autoctona denominata “Fico Rosa di Pisticci”.
Caratterizzato da un gusto dolce di caramello, fichi e miele, denso e dal colore marrone lucente, viene usato per accompagnare il gelato, come ingrediente nei dolci soprattutto quelli natalizi (cartellate “i carteddàte”, porcedduzzi “i percidduzz”, sassanelli “i sassànédder”, pettole “i pèttel), ma si abbina bene anche a formaggi e carni bollite.

Fonti:
Ilmondodelgusto.it
Artusi, P., La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene
“Caroenum Alla scoperta del vino cotto” Camera di Commercio Macerata
Luciani,F., I Prodotti Tradizionali della Regione Marche,2006
Partecipano come contributors:
Donatella Bartolomei, Sapa di uva e miele
Fabio Grasso, Frollini sapa e cacao senza glutine 
Cristina Tiddia, Gelato alla Sapa

2 commenti

  1. Complimenti per l’articolo Donatella, sono un grande mangiatore di sapa ma non ho mai provato il ficotto… dovrò recuperare al più presto!

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