L’acciuga

acciuga

Pubblicazione: 18/07/2016

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“Tanti e tanti anni fa, così tanti che non potete nemmeno immaginarne quanti, splendeva nel cielo una numerosa famiglia di stelle: stelle piccine piccine, ma luminosissime, forse le stelle più luminose di tutto l’universo celeste. Si chiamavano Engrauline ed erano molto, molto vanitose. Infatti ogni notte, dall’alto del cielo si specchiavano sull’acqua del mare…” 

Una notte, rose dall’invidia, se la presero con la Luna che, dal carattere dolce, pianse e Dio, stufo del loro comportamento, volle punirle:
… Ora basta, ho deciso: vi toglierò da qui e vi manderò in quel mare che tanto vi piace usare come specchio…
E finalmente gli umani continueranno ad apprezzarvi molto sì, ma come utile cibo. E da oggi sarete costrette a correre, a stancarvi, a patir la fame e la paura. E soprattutto, come tutti i pesci, starete finalmente zitte per sempre”.
Fu così che, il giorno dopo, le reti dei pescatori si riempirono per la prima volta di innumerevoli esemplari di piccoli pesci lucenti come argento vivo, che vennero battezzati dai sapienti Engraulis Encrasicholus, ma che i semplici chiamarono, da allora e per sempre, semplicemente Acciughe.
E da allora, come racconta la leggenda di Mitì Vigliero Lami, le acciughe, vittime di invidia e superbia, vissero la loro vita votate al servizio dell’uomo come simbolo di cibo povero e umile. Ironico non trovate?

LE ACCIUGHE FANNO IL PALLONE
Le acciughe, o alici (sono la stessa cosa!), sono pesci ossei marini appartenenti alla famiglia delle Engraulidae. Sono caratterizzate, come le cugine aringhe e sardine, da un comportamento gregario: si muovono in numerosi gruppi chiamati banchi.
E’ incredibile come riescano a muoversi all’unisono e questo avviene grazie ad una comunicazione di tipo visivo, olfattivo e tattile; da alcuni studi risulta che attraverso la liberazione di feromoni comunichino messaggi di allarme, coesione, richiamo sessuale, ecc…
Il gonfiarsi in un “pallone” compatto vicino alla superficie dell’acqua è un meccanismo difensivo da cui molti autori hanno preso ispirazione, come la già citata Mitì Vigliero Lami e Fabrizio De Andre’ a cui si deve la metafora: credo sia uno spettacolo emozionante.

La distribuzione geografica di questa specie comprende soprattutto il Mediterraneo, il Mar Nero, le coste atlantiche dell’Europa e dell’Africa, fino al Golfo di Guinea. Da aprile a settembre l’acciuga vive nelle acque costiere dove si nutre di plancton e si riproduce. Durante i mesi invernali, invece, si ritira in profondità, fino a 150 metri sotto la superficie del mare, come dimostrano i suoi grandi occhi capaci di adattarsi alla luce scarsa delle acque profonde. La grande bocca dell’acciuga, rivolta verso il basso, indica un’alimentazione diversa infatti, nei periodi autunnali e invernali, si nutre di piccoli crostacei, uova di pesce e detriti che trova sul fondale.

LA PESCA
Come ci racconta Irene Rizzoli nel suo libro “Alice o acciuga?”, la pesca delle acciughe non è cosa semplice. Il momento ideale è la notte poiché questo è il tempo in cui le acciughe si disperdono. Con la partenza dei pescherecci, sempre accompagnati da una lampara (piccola barca a remi con le luci posizionate a poppa) e da una banga (piccola barca a motore responsabile della chiusura dei capi delle reti), ha inizio la ricerca fatta di attesa, pazienza, attenzione che, se la fortuna accompagna, lascia il posto all’ordine “Mooollllaaaa!”, all’energia e alla forza. Ogni componente dell’equipaggio ha il suo ruolo ben preciso e come gli anelli di una rete devono lavorare insieme. Il capitano dei pescherecci controlla i fondali con il sonar e l’ecoscandaglio e solo se trova un banco sufficientemente grande punta le luci sull’acqua per creare una semisfera di luce che attiri in superficie le acciughe. E’ allora che arriva il comando di buttare la rete, chiuderne i capi e tirarla sul peschereccio. La notte finisce e l’alba fa capolino all’orizzonte e se il mare è stato generoso, sarà stata una notte di buona pesca per i coraggiosi pescatori.

CONSIGLI
Per molti non è così facile destreggiarsi nell’acquisto del pesce. Come riconosciamo un’alice fresca? Come possiamo evitare gli imbrogli?
Un’alice fresca si riconosce dall’odore (delicato e gradevole, non ammoniacale), dall’aspetto (corpo brillante e carni sode con squame aderenti), dal colorito delle branchie (rosaceo tendente al rosso) e dall’occhio (vivo e sporgente, con pupilla nera, non arrossata). Molto simile all’acciuga, ma meno pregiata, l’alaccia viene spesso commercializzata come alice. Per scoprire l’inganno è sufficiente osservare il taglio della bocca: nelle acciughe si spinge oltre la base dell’orecchio, nell’alaccia non raggiunge l’occhio.

CONSERVAZIONE
In alcune zone, ad esempio nel Mar Adriatico, avviene una sovrapesca di alici. Quindi vengono utilizzate diverse modalità di mantenimento che permette di non sprecare il prodotto e di gustarlo tutto l’anno. I metodi di conservazione possono essere suddivisi principalmente in due categorie: le conserve e le semiconserve.
Nel caso delle conserve (sardine all’olio o in salsa, filetti di sgombro all’olio o al naturale), i prodotti vengono confezionati in contenitori ermetici e sterilizzati per garantire la sicurezza da un punto di vista igienico sanitario e una conservazione anche di anni a temperatura ambiente.
Per le semiconserve, invece, non avviene il trattamento della sterilizzazione quindi la conservazione ha tempistiche più brevi e devono essere mantenute a temperature basse. Questo è il caso delle acciughe salate, sott’olio, marinate o in salsa.

LE ECCELLENZE ITALIANE
La conservazione sotto sale è una delle più diffuse in Italia e con essa spiccano delle eccellenze italiane connotate da antiche origini. Un esempio di eccellenza è costituito dalle Alici di Menaica, pescate nella zona del Cilento in un piccolo borgo della costa, Marina di Pisciotta. Questo fantastico prodotto viene pescato da pochissimi pescatori che hanno voluto salvaguardare un’antica tecnica di pesca. Momento ideale è all’imbrunire, quando i pescatori gettano la rete, detta menaica, per sbarrare il cammino delle alici. La rete seleziona le alici più grandi, lasciando passare quelle più piccole. Il pesce viene pulito e riposto in cassette e viene direttamente trattato, senza aver toccato ghiaccio, per affrontare la stagionatura. Si lavano le alici in salamoia e si dispongono in vasetti di terracotta alternati da strati di sale. Vengono poi lasciati a maturare in luoghi freschi e umidi, i magazzeni, per almeno tre mesi.
Per le Acciughe di Monterosso dobbiamo spostarci in Liguria nella zona delle Cinque Terre. Qui le acciughe rimangono intrappolate nelle reti perché attirate dal luccichio del placton reso evidente dalle lampare attaccate alla poppa delle barche. Un tempo chiamate “u pan du ma!” (il pane del mare), hanno un gusto particolarmente equilibrato e sono protagoniste di molte ricette liguri.
Torniamo al Sud, nel golfo di Catania, per trovare la masculina da magghia. I masculini o anciuvazzu, cioè le nostre fantastiche acciughe, vengono pescate come avviene nel Cilento con l’utilizzo della menaica. Questo tipo di pesca provoca un dissanguamento naturale del pesce grazie all’imprigionamento delle teste delle alici nelle maglie della rete, ecco perché de magghia. Questo rende il pesce più gustoso. Se la tecnica di salagione è la stessa per tutto il Mediterraneo, qui possiamo, però, trovare una ricetta unica che oggi potremmo definire di riciclo. Si tratta di una conserva sott’olio con pezzetti di alici e teste, gli scarti per intenderci, che poteva essere utilizzata per la preparazione di salse e piatti vari.

IL GARUM IERI, LA COLATURA DI ALICI OGGI
La lavorazione delle alici è una pratica molto antica, che ha portato alla produzione nel corso dei secoli di diversi tipi di salse di pesci fermentati. La salsa di pesce alusa kud risale probabilmente all’antica Mesopotamia e può essere considerata l’antenato del famoso Garum, usato dagli antichi romani come condimento di molte pietanze.
Anche se le notizie sono frammentate e incerte, l’ipotesi più diffusa è che il termine Garum derivi dalla parola greca garos, un piccolo pesce con cui veniva prodotta la salsa Garon, utilizzata in Grecia come condimento.
Dalla Grecia, questa salsa arriva a Roma con le guerre puniche e sembra permeare non solo l’aspetto culinario ma anche dell’intera vita sociale romana: infatti, a partire dal II sec. a.C. , il Garum ebbe un successo sempre crescente e possiamo trovarne testimonianza in diversi scritti.
Apicio, gastronomo dell’Antica Roma, nella sua opera De coquinaria, lo cita in almeno 20 ricette come ingrediente per carni, verdure, pesci e frutta. Non accenna alla ricetta per prepararlo, ma lo distingue dal Liquanem, che è la parte liquida prodotta dalla fermentazione delle interiora del pesce, mentre il Garum ne è la parte solida.
Nelle Geoponiche, collezione di libri di autore e periodo sconosciuti, si descrive la preparazione del Liquanem:
“Il cosiddetto ‘liquamen’ è così prodotto: versare in un recipiente le interiora dei pesci e poi salare; [versare] piccoli pesci, soprattutto latterini, o piccole triglie, o menole, o acciughe, o qualsiasi piccolo [pesce] vi sia, tutti da salare in modo uguale, da lasciar stagionare al sole e rigirare costantemente. Dopo che avranno stagionato al caldo si trae da essi il garum; una grande cesta viene inserita nella cavità piena dei suddetti piccoli pesci: il garum fluirà nella cesta; quel che è colato attraverso essa, chiamato “liquamen”, verrà raccolto; il restante diverrà “allec” (…).

Quinto Gargilio Marziale, scrittore romano del III sec. d.C., dà la sua ricetta: “Si usino pesci grassi come sardine e sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di un terzo, interiora di pesci vari. Bisogna avere a disposizione una vasca ben impeciata, della capacità di una trentina di litri. Sul fondo della stessa vasca fare un alto strato di erbe aromatiche disseccate e dal sapore forte come aneto, coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano. Su questo fondo disporre le interiora e i pesci piccoli interi, mentre quelli più grossi vanno tagliati a pezzetti. Sopra si stende uno strato di sale alto due dita. Ripetere gli strati fino all’orlo del recipiente. Lasciare riposare al sole per sette giorni. Per altri venti giorni mescolare sovente. Alla fine si ottiene un liquido piuttosto denso che è appunto il garum. Esso si conserverà a lungo.”

Questo “Pesce marcio di materie in putrefazione”, come lo definì Plinio il Vecchio, possiamo ritrovarlo anche in ambito curativo, poiché veniva utilizzato come unguento o disinfettante, sia per gli animali che per gli umani, per alcuni disturbi come le ustioni recenti, i morsi dei cani e del coccodrillo, per guarire le ulcere, la dissenteria e i malanni delle orecchie.
Importantissimo ritrovamento è quello dei resti dell’Officina del Garum degli Umbricii a Pompei. Grazie all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., oggi possiamo ammirare i resti di uno dei maggiori centri di vendita di garum dell’epoca.
Oggigiorno non ve n’è più traccia, ma possiamo degustare quella che secondo me si avvicina forse di più al liquanem: la Colatura di Alici. Supera per qualità e profumo le salse antiche e fa la sua comparsa intorno alla seconda metà del XIII secolo ad opera dei monaci cistercensi della canonica di San Pietro a Tuczolo, colle nei pressi di Amalfi.
I monaci, nel periodo estivo, utilizzavano le proprie navi per la pesca del pesce azzurro e conservavano le alici alternate a strati di sale. Chiuse con un peso sul coperchio, lasciavano colare il liquido prodotto; con il tempo si perfezionò la raccolta di quello che ancora oggi è un prodotto molto costoso e ricercato.

LA MIA RICETTA: ALICI E PATATE AL FORNO

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Ingredienti per 4 persone:
• 400 g di alici fresche
• 2 patate piccole
• 4 cucchiai di pangrattato
• 2 cucchiai di caciocavallo ragusano
• Olio extra vergine d’oliva q.b.
• Pepe q.b.
• Sale q.b.
• Prezzemolo
• Aglio facoltativo

Preparazione
Lavate e pulite le alici privandole della testa, interiora e lisca centrale. Tamponatele delicatamente con carta da cucina. Pelate e affettate le patate con l’aiuto della mandolina. In una pirofila, mettete un po’ d‘olio e disponete le fette di patate alternate ai filetti di alici. Condite con un pizzico di sale.
Cospargete il tutto con un misto di pangrattato, caciocavallo grattugiato, prezzemolo tritato, pepe macinato fresco e olio. Irrorate con ancora un filo d’olio e infornate a 160°C per circa 30 minuti.

LETTURE CONSIGLIATE
Nico Orengo “Il salto dell’acciuga” – Einaudi
Irene Rizzoli “Alice o Acciuga?” – Mondadori
Diego Crestani, Roberto Beltramo “L’acciuga nel piatto” – I Libri della Bussola
Diego Crestani, Roberto Beltramo “Il sale nelle vene” – I Libri della Bussola
Mitì Vigliero Lami “L’alice delle meraviglie”

FONTI
www.placidasignora.com
archeoricette.com
wikipedia.org
www.treccani.it
www.fieradegliacciugai.it
www.stpauls.it
www.colaturadialici.it
hcomeaccademia.wordpress.com
www.regione.piemonte.it
www.politicheagricole.it
slowfood.com
www.amordivino.net
slowfood.com
Irene Rizzoli “Alice o Acciuga?” – Mondadori

Articolo di Irene Prandi

Partecipano come contributors:

Enrica Gouthier, Tortiera di acciughe e patate

Daniela Ceravolo, Alici marinate, un gustoso antipasto

Erica Zampieri, Colatura…certo che si !

Sara Sguerri, Le Acciughe alla Povera di Livorno

Fabio Campetti, Spaghetti alle alici e pomodorini confit

Erica Repaci, Acciughe ripiene alla ligure

Alessandra Gabrielli, Acciughe al verde

Giulia Robert, Terrina di Acciughe alla Pizzaiola

Silvia Leoncini, Acciughe Fritte e Storia

5 commenti

    1. Chiedo scusa per aver scritto IO maiuscolo: non intendevo farlo, ma ho schiacciato invio prima di rileggere e non mi ero accorta di aver schiacciato la maiuscola: la demenza avanza, scusatemi!
      se qualcuno da admin riuscisse a correggere gliene sarei grata!

  1. Bellissimo articolo Irene, completo e scorrevole, ricco di notizie e curiosità! Davvero complimenti e grazie per aver “ambasciato” questa giornata! 🙂

  2. Complimenti Irene, bell’articolo e quanto è carina la leggenda delle acciughe? La conosco, mi piace tantissimo!!

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