Settimana della cacciagione

Pubblicazione: 07/11/2016

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Settimana Nazionale della cacciagione

Ambasciatrice Maria Pia Bruscia per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

“La caccia non è un hobby e neppure uno sport. E’ una passione che ci hanno trasmesso i nostri antenati preistorici. L’uomo primitivo ha dovuto cacciare prima ancora di fare l’amore. Non poteva pensare di riprodursi se non trovava il cibo” dice Mario Rigoni Stern, ed io concordo in pieno con lui.

La storia della caccia inizia con la nascita dell’uomo: sin dagli inizi della storia dell’umanità la caccia è stata praticata per procacciarsi il cibo e per difendersi dalle fiere, quindi è strettamente connessa all’istinto di conservazione e di sopravvivenza. Nel corso del tempo le sue finalità si sono evolute arricchendosi di aspetti simbolici e culturali, ma la componente istintuale legata alla sua origine è rimasta indelebilmente impressa nella natura umana.

Se agli albori della preistoria l’unica tecnica di caccia era quella dell’inseguimento della preda fino a che questa, sfinita, poteva essere avvicinata e abbattuta, con l’avvento delle prime società di cacciatori-raccoglitori le tecniche si sono evolute grazie all’uso di armi da tiro: lance, sassi, archi e frecce. La caccia non era solo un’importante fonte di cibo, ma anche di materiali utili per la fabbricazione di armi ed utensili (ossa, tendini), abiti e calzature e, non ultimo, ripari (pelo, pelli e penne).

In seguito alla nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, la caccia divenne una fonte secondaria di approvvigionamento di cibo e fu praticata soprattutto per difendere i raccolti e gli animali domestici dai predatori. Nel tempo si trasformò in fenomeno sociale e divenne un’attività professionale, con equipaggiamenti ed allenamenti specifici, o un’attività ludica, prerogativa delle classi sociali più elevate.
Ma andiamo con ordine.

Per le popolazioni barbariche stanziatesi nei confini dell’Impero Romano, la caccia era parte integrante dello stile di vita del guerriero: era infatti l’attività principale in tempo di pace e la scuola di guerra dei giovani. Secondo Eginardo, i figli di Carlo Magno cominciarono a fare pratica d’armi non appena l’età lo consentì, e un proverbio di epoca carolingia suggerisce come limite massimo i dodici anni: “chi senza montare a cavallo è restato a scuola fino a dodici anni non è più buono ad altro che a fare il prete”.

Nell’antica Roma la selvaggina era res nullius, apparteneva cioè a chi la trovava. La caccia era libera, così come la raccolta dei prodotti selvatici, cui era equiparata. A partire dal Medioevo, invece, si registra la crescente connessione tra caccia ed esercizio del potere: era ancora aperta a tutti, con la parziale eccezione delle proprietà regie.In epoche successive si assistette ad una progressiva appropriazione dei privilegi venatori da parte deinobili che detenevano il potere, con la conseguente esclusione a danno dei ceti produttivi.
Questo fenomeno si spiega con il fatto che i prodotti della foresta alimentavano un abbondante circuito di scambio di doni: la possibilità di cacciare nelle riserve era un dono che il re faceva ai nobili e agli ospiti illustri, e che gli consentiva di esercitare la fondamentale funzione di distributore di beni.
Con la crisi del potere centrale,i nobili cominciarono a creare i loro parchi privati, in cui esercitavano analogo potere nei confronti di amici, alleati e membri di casate illustri.

A partire dal XIII secolo i parchi signorili conobbero una crescita costante: elementi tipici del parco erano una recinzione, una costruzione anche di notevoli dimensioni per il soggiorno del signore e dei suoi ospiti e un corso d’acqua, indispensabile al mantenimento degli animali.
La gestione del parco era funzionale al mantenimento degli animali, soprattutto cervi; erba e sterpaglie dovevano essere regolarmente tagliate, e la presenza di animali da pascolo andava tenuta sotto controllo. In previsione di caccie con molti partecipanti veniva portata nei parchi selvaggina supplementare, catturata viva da specialisti.

Anche nei casi in cui le comunità locali avevano un limitato diritto alla caccia, erano comunque obbligate a omaggiare il padrone della riserva con la testa o le zampe degli animali catturati, sottolineando così il rapporto di potere tra chi concedeva il diritto di cacciare e chi lo riceveva.

Nel rito della caccia ogni componente sociale recitava una parte preordinata: se i nobili si muovevano a cavallo, i contadini erano appiedati efacevano i battitori, servendosi di bastoni. Tale rito rispecchiava l’opinione dominante, secondo cui “le persone sono di diverso coraggio e diversa natura, per cui ci sono diverse tecniche a seconda della natura e della condizione di ciascuno”.

I contadini cacciavano essenzialmente lepri e selvaggina di piccola taglia per mezzo di reti e trappole, per fini esclusivamente alimentari; la caccia dei nobili invece, per essere simile alla guerra, doveva avere come bersagli animali feroci e aggressivi. Il coraggio e l’abilità nel combattere si esaltavano contro uri, cinghiali e orsi, non certo contro la piccola selvaggina. Unica eccezione fu il cervo, definitivamente rivalutato solo dopo il XII secolo, quando divenne simbolo di regalità: numerosi sono i racconti e le ballate popolari che parlano della pena di morte inflitta ai popolani che cacciavano abusivamente il cervo nel parco del re.

Benché alcune prede fossero privilegiate (orsi, cinghiali, uri, cervi), ogni tipo di selvaggina offriva elementi di piacere e soddisfazione. Nell’alto Medioevo l’uro, estintosi nel XVII secolo, era cacciato con passione dai re franchi; i cervidi minori seguirono le sorti del cervo; in particolare la caccia al capriolo, animale astuto e sensibile che lascia tracce molto leggere, consentiva ai cacciatori di mettere a frutto tutta la loro abilità, con lunghissimi inseguimenti e pazienti appostamenti. Gli stambecchi mettevanoalla prova la perizia equestre di chi ne seguiva la pista. Il piacere della caccia alla volpe stava soprattutto nella ricerca notturna della tana, dalla quale poi l’animale veniva stanato con il fumo. L’inseguimento della lepre, infine, era apprezzato per la sua imprevedibilità.

In gran parte del mondo moderno la caccia non è più indispensabile per procurarsi il cibo, anche se vi sono ancora alcune popolazioni che vivono in condizioni di estrema povertà o in ambienti sfavorevoli ad agricoltura e allevamento, come gli Inuit: per costoro la caccia ricopre ancora una funzione importante, consentendo di procacciarsi cibo e pellame usato per la realizzazione di tende, canoe, guanti, abiti e calzature.

Nei paesi industrializzati, invece, la caccia viene praticata essenzialmente come attività ricreativa o commerciale, oppure per controllare la popolazione delle varie specie all’interno dell’ambiente in cui vivono. Le norme di regolamentazione della caccia fissano, tra l’altro, il numero di animali da abbattere, per garantire la preservazione della fauna selvatica nel suo ambiente di elezione.
Le leggi di tutti i paesi europei prevedono che la caccia sia praticata da maggiorenni, mentre negli Stati Unitie in Canada è sufficiente aver raggiunto i 16 anni di età.

La caccia è oggi criticata dal movimento per i diritti animali, secondo cui viola il diritto alla vita degli animali cacciati ed è fonte di inquinamento e di saturnismo a causa del piombo delle munizioni rilasciato nell’ambiente. Nel corso degli anni Novanta in Italia sono stati proposti tre referendum per inasprire le norme che regolano la caccia, nessuno dei quali raggiunse però il quorum.

Ciò non toglie che la caccia favorisca lo spirito di aggregazione, sia un’occasione di incontro e di scambio con altri appassionati, e rappresenti anche uno spazio intimo denso di immagini, suoni, odori e sapori che rievocano ricordi del passato, i propri affetti, le proprie radici. Il mondo interno del cacciatore racchiude molti significati che vanno oltre l’immagine di un’attività finalizzata semplicemente a uccidere gli animali: la caccia è una realtà complessa, ricca di emozioni, suggestioni e legami forti, con i cani, con i “compagni di viaggio” e, non da ultimo, con l’ambiente naturale che rappresenta la vera casa che i cacciatori vivono e rispettano.

TAGLIATELLE AL NEBBIOLO CON RAGU’ DI CERVO

Per 4 persone

Per la pasta:
150 g di farina 0
150 g di semola di grano duro
1 uovo
vino Nebbiolo q. b.
1 pizzico di sale

Per il ragù di cervo:
500 g di bocconcini di cervo (anche surgelati)
1 bicchiere di Nebbiolo
1 cipolla
1 carota
1 costa di sedano
1 cucchiaio di doppio concentrato di pomodoro
brodo q.b. (sarebbe meglio un brodo di selvaggina, ma in mancanza va bene anche quello di vitello)
10 bacche di ginepro
10 grani di pepe nero
3 chiodi di garofano
olio extravergine di oliva
sale

La sera prima mettere a marinare i bocconcini di cervo nel vino insieme alle bacche di ginepro leggermente schiacciate, ai grani di pepe nero, schiacciati pure quelli, e ai chiodi di garofano.
Il mattino dopo togliere 2 dei chiodi di garofano, preparare con cipolla, carota e sedano un soffritto e rosolarci la carne di cervo. Versare tutta la marinata, scioglierci il concentrato di pomodoro, regolare di sale, coprire il tegame e far sobbollire a fiamma bassa per 2 ore, aggiungendo del brodo caldo se necessario.
A cottura ultimata sfilacciare i bocconcini di carne, frullare il sugo di cottura e tenerli in caldo.

Preparare la pasta: setacciare insieme un paio di volte le due farine, fare la fontana, aggiungere un pizzico di sale, romperci dentro l’uovo e aggiungere tanto vino quanto basta per ottenere un impasto della giusta consistenza. Io ho usato come dosatore il guscio dell’uovo e ho versato almeno 6 mezzi gusci di vino. Regolatevi voi però, secondo la capacità di assorbimento della farina. Sbattere l’uovo e il vino con la forchetta, poi cominciare ad incorporare la farina, sempre con la forchetta; infine continuare ad impastare a mano.
Avvolgere la palla di impasto in pellicola trasparente e farla riposare per mezz’ora prima di stenderla in una sfoglia sottile. Probabilmente ho esagerato un po’ col vino perché la sfoglia si attaccava leggermente al mattarello, contrariamente a quanto fa di solito. Ho allora spolverato con poca semola di grano duro che non crea lo stesso “effetto viscido” della farina.
Fare asciugare la sfoglia, poi arrotolarla e tagliare le tagliatelle a 7-8 mm di spessore con l’apposita coltella o con un trinciante.

Fare asciugare i nidi di sfoglia, poi lessarli in abbondante acqua salata, scolarli e condirli con il ragù di cervo. Sorprendentemente questa pasta, di un colore rosa antico carico da cruda, si schiarisce parecchio da cotta.

Fonti:
Claudia Sansone in Federcaccia.org
Lame Scaligere
Wikipedia

4 commenti

  1. che splendido post Maria Pia!! Ho appena visitato la Venaria Reale a Torino e approfondito proprio l’aspetto regale della caccia. Tema molto interessante. Grazie per la condivisione di queste importanti informazioni e per la bella ricetta!

    1. Grazie Cri, mi fa piacere che ti sia piaciuto! 🙂
      Ecco, la Venaria Reale la vorrei davvero visitare, fosse solo per il mio amore per la selvaggina!
      Un abbraccio.

  2. davvero un ottimo post! Sono d’accordo con te sull’etica del “cacciatore vero”, e se riesco parteciperò di certo a questa settimana, dobbiamo sostenere queste nostre tradizioni 🙂

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