Il Sartù

sartù
ph. Micaela Ferri

Pubblicazione: 12/11/2016

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Giornata Nazionale del Sartù di riso

Ambasciatrice Valeria Caracciolo per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

Che che ne dica la fisica scuola di sì fatte vivande composte, io non lo so: so però, che a tutti piacciono, e nelle mense le desiderano; che perciò si è esposta la maniera di farle; tanto più, che tendo io al fine di soddisfare al gusto vario degli uomini, la mensa dev’essere sempre coperta , non solo da vivande semplici, ma da composte ancora. E s’è vero, che quel che piace giova, son sicuro della riuscita, e dell’esito felice. Ecco dunque la maniera di farle”.

Così Vincenzo Corrado, Il Cuoco Galante, introduce il Trattato X, Delli Timballi e Delli Sartù.

E dell’esito felice sono sicura anche io. Una tavola dove è presente il Sartú di riso sarà sempre una tavola di successo.
Ma non sempre il riso è stato accolto con entusiasmo, almeno non sulle tavole napoletane, almeno non subito.

“’O riso scaldato era na zoza, fatt’a sartù è tutta n’ata cosa”, recita una canzone popolare.

Infatti il riso, arrivato a Napoli da Oriente grazie agli Aragonesi nel XIV secolo, non ebbe grande successo.
Nonostante fosse un cibo nutriente, sebbene economico, che dava senso di sazietà, non riuscì ad entrare nel cuore dei napoletani come la cugina pasta, sbarcata nella città partenopea più o meno nello stesso periodo.
Acquisì il titolo di “sciacquapanza” (traduciamo con “cibo rinfrescante per lo stomaco”) ed associato a condizioni di salute precarie, in quanto prescritto come cibo consigliabile in caso di malattie gastro-intestinali, rigorosamente in bianco dalla Scuoola Medica Salernitana.
Non desta alcuna meraviglia, allora, che i napoletani non l’abbiano accolto con entusiasmo la prima volta.
Sí, prima volta. Perché poi il riso tornò a Napoli qualche secolo dopo, sotto mentite spoglie.
Alla fine del ‘700 a Napoli andava di moda la cucina francese nelle cucine dei nobili che abitavano i palazzi del centro storico, dove i cuochi venivano chiamati Monzù, napoletanizzando il termine francese “Monsieur”. L’interesse per la gastronomia d’Oltralpe fu incoraggiato da Maria Carolina D’Asburgo, viennese e figlia di Maria Teresa D’Asburgo, andata in sposa a Ferdinando IV dei Borboni; questi, detto il nasone, alquanto rozzo e poco colto, aveva portato a Napoli la sua consorte, blasonata e colta, che fece di tutto per importare la cultura gastronomica e non solo francese. I Monzù (chiamati Monsù in Sicilia) diventarono ogni giorno sempre più rispettati e richiesti; il loro impegno e la loro abilità fu nel saper unire la finezza della cucina francese con la varietà incredibilmente ricca delle materie prime campane. E sono proprio loro gli artefici del ritorno del riso in città.
In Francia godeva già di un discreto successo, ma a Napoli veniva ancora considerato uno sciacquapanza; così i Monzù, per renderlo accettabile ai palati dei loro padroni, ci aggiunsero una ricca imbottitura di carne, piselli e formaggio, ricoprendo poi la farcia con altro riso. Da qui il nome Sartù, che è ancora una napoletanizzazione del termine francese “sur tout”, che vuol dire sopra a tutto. Probabilmente perché il riso ricopriva il ripieno, ma anche perché veniva servito su un piatto rialzato, che sovrastava tutte le altre pietanze.
Solo nel tardo Ottocento venne aggiunta ‘a pummarola, cioè il ragù, versione che tutt’oggi viene preferita a quella bianca.

Di ricette di Sartù di riso oggi a Napoli potreste trovarne tante quante sono le famiglie napoletane: ognuna ha la sua e per ognuna la propria è quella giusta.
Potrei parlarvi della ricetta di mia nonna, che per me è la più buona al mondo ma, per non far torto a nessuno, preferisco darvene tre: quella di Vincenzo Corrado, che segna la nascita di questa straordinaria ricetta, della fine del ‘700; quella di Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, che con l’avvento della pummarola da il via all’evoluzione di questo piatto; ed infine quella di Alfonso Iaccarino, dello storico ristorante Don Alfonso 1890 a Sant’Agata sui Due Golfi, che ci riporta ad una delle versioni attuali.

Ricette del sartù

Ricetta di Vincenzo Corrado, Il Cuoco galante, Napoli 1793:
«Cotto il Riso con brodo, e poi freddato, si legherà con parmegiano grattugiato, gialli di uova, e qualche chiara, e se ne formerà una pasta, la quale tirata come una grossa sfoglia, entro una casseruola unta di strutto, e polverata di pan grattato, per ripieno di essa vi si metterà un ragù di animelle, condito con tartufi, prugnoli, ed erbe aromatiche; si coprirà con la sudetta pasta di Riso, e si farà cuocere al forno. Cotto si servirà caldo il Sortù».

Ricetta di Ippolito Cavalcanti (duca di Buonvicino), Cucina teorico-pratica, Napoli 1837:
«Prendi un rotolo e mezzo di riso, ma che sia di quello forte, lo lesserai nel brodo chiaro, ed in mancanza anche nell’acqua, sia pure per economia, perchè vale lo stesso. Quando il riso sarà cotto, ma non scotto, ci porrai un terzo, ossia once undici di permeggiano o caciocavallo, ed un pane di butiro (purchè non l’avrai cotto nel brodo), ci farai un battuto di dodici ovi, e mescolerai tutto ben bene: indi farai raffreddare questa composizione, e poscia prenderai la casseruola proporzionata per formare il sartù, facendoci una inverniciata di strutto con una uguale impellicciata di pan gratto, poscia ci porrai la mettà del riso già intiepidito, e con una mescola leggiermente lo adatterai facendoci un concavo nel mezzo, ove porrai il solito raguncino che più volte ti ho detto per i timpani: Al di sopra ci porrai l’altra mettà del riso, e con le mani l’accomoderai in modo che vada tutto bene incassato, faacendoci al di sopra una ingranita di pan gratto con de’ pezzettini di strutto. Gli darai la cottura come al timpano con la pasta, versandoci uno o due coppini di sugo».

Ricetta di Alfonso Iaccarino, ristorante Don Alfonso 1890, Sant’Agata sui Due Golfi:
“Versate 2 cucchiai di ragù in acqua bollente; versatevi il riso Carnaroli e cuocetelo fino a 2/3 di cottura. Lasciate riposare; quando è freddo, aggiungete un cucchiaio di olio extravergine di oliva, 4 uova battute e il Parmigiano. Per le polpettine di carne di maiale macinata:
riunite in una terrina la carne macinata con una mollica di pane imbevuta nel latte. Aggiungete il rosso d’uovo, sale e pepe, prezzemolo e aglio tritato. Formate delle palline della grandezza di una nocciola, infarinate e friggete nell’olio extravergine; asciugate su carta assorbente. Nel frattempo rosolate la cipolla in olio extravergine, versatevi i piselli e fate saltare per circa 5 minuti. Pulite i funghi, rosolate l’aglio in camicia in una padella a parte e toglietelo quando è biondo; cuocete i funghi in un’altra padella per 5 minuti. In un altro tegame fate saltare i fegatini di pollo spellati e privati del fiele. Tagliate intanto la mozzarella a dadini. Mescolate al riso 1/3 di piselli e 1/3 di funghi; ungete con il burro uno stampo circolare alto circa 20 cm; ricoprite con pangrattato e versatevi metà del riso, accostandolo ai bordi e lasciando un vuoto al centro. Per finire riempite lo spazio a strati, alternando funghi, piselli, fegatini, mozzarella, ragù di pomodori e il riso rimanente. Mettete a cuocere in forno a 180° per circa 20 minuti“.

Fonti:
www.sartu.it
www.agrodolce.it
Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, 1793
Ippolito Cavalvanti, Cucina teorico-pratica, 1837

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