Gli antichi ricettari piemontesi

Pubblicazione: 21/09/2017

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Con la pubblicazione del Cuoco piemontese perfezionato a Parigi nel 1776, anche Torino diventa un vivace laboratorio editoriale di manuali e trattati dedicati alla cucina. L’autore anonimo avvertiva i suoi lettori

sovvengavi che questo libro non esce da un’Accademia, ma bensì da una Cucina; non propongo regole di ben dire, ma di ben condire.

L’ispirazione, dichiarata anche nel titolo, arrivava direttamente dalla Francia; o meglio dalla celebre Cuisinière bourgeoise di Menon, pubblicato a Parigi nel 1746. Il Cuoco piemontese però non traduce semplicemente le ricette d’Oltralpe, ma adegua le regole della grande cucina alle necessità della padrona di casa della nuova borghesia e le suggerisce i prodotti locali da utilizzare in sostituzione di quelli francesi: i tartufi bianchi d’Alba al posto di quelli del Périgord, le cipolle di Ivrea invece di quelle olandesi. Pur senza una completa originalità, il Cuoco Piemontese pone quindi le basi per la nascita di una vera e propria cucina regionale.

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Il primato di aver messo su carta un vero e proprio “trattato di cucina del Piemonte” va riconosciuto però a François Chapusot, il quale, nel 1846, pubblica La cucina sana, economica ed elegante secondo le stagioni. Quattro fascicoli da centocinquanta pagine ciascuno: primavera, estate, autunno, inverno, distribuiti dal tipografo Favole di Torino all’inizio di ogni stagione. Partendo dal presupposto che dal buon cibo dipende la salute del corpo e dello spirito e forte della sua ventennale esperienza di capocuoco, Chapusot intende proporre una guida facile e chiara:

anche la più semplice fantesca, purchè sappia leggere e capisca le parole, non avrà a seguirmi per non isbagliar il più difficile piatto.

Il principio stagionale è per quell’epoca rivoluzionario. Lo è anche il tipo di cucina praticata: particolarmente attenta all’igiene e alla qualità dei prodotti. Chapusot è amante della tecnica ed è un uomo estremamente pratico: cita i nuovi metodi di coltivazione; fornisce indirizzi preziosi di macellai, argentieri e venditori di pentolame torinesi; mette tra parentesi i termini in dialetto per avvicinarsi al suo pubblico. Così, forse inconsapevolmente, Chapusot diventa il portavoce della borghesia piemontese che farà nascere una gastronomia regionale originale e sincera.

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Otto anni dopo, nel 1854, il biellese Giovanni Vialardi, capocuoco e pasticciere di re Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, dà alle stampe quello che ancora oggi è considerato il più importante codice della cucina piemontese: il Trattato di Cucina, Pasticceria moderna, Credenza e relativa Confettureria. Vialardi, al quale va il merito indiscusso di avere adottato per primo nel suo libro il sistema metrico decimale (introdotto nel Regno di Sardegna nel 1845), è un grande codificatore di quella “cucina della corte” e dell’aristocrazia torinese che orbitava intorno a Casa Savoia.
Le bellissime illustrazioni del testo – trentadue tavole raffiguranti il modo di apparecchiare, gli utensili da cucina, i tagli delle carni e la presentazione dei piatti – completano il lavoro di Vialardi, divenuto ormai matrice e icona della cucina tradizionale Piemontese.

Se, quindi, l’Ottocento, con il Risorgimento e il prestigio crescente della Corte dei Savoia, può essere considerato il secolo d’oro delle pubblicazioni di cucina piemontese, mi sono chiesta cosa accadeva nello stesso periodo alle periferie del Regno e, soprattutto, nelle “cucine di famiglia”, lontano dal lustro e dalle mode della “tavola di casata”.

Nel 1984 l’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Alba ha pubblicato la copia anastatica di un curioso manualetto definito Istruzioni ad una cuoca piemontese del primo ‘800. Il libro è la trascrizione di un manoscritto anonimo di ottantasei pagine recante sul frontespizio la scritta Polizia e cucina (con polizia s’intenda pulizia, ovvero igiene), cui segue la dedica al Comandante, o Governatore Generale, della divisione di Cuneo nel giorno 1° gennaio 1822. Purtroppo Luciano De Giacomi, autore della prefazione in qualità di Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri, non riporta nulla circa la storia del manoscritto, a chi apparteneva o come l’Ordine ne sia venuto in possesso. Né approfondiscono molto i curatori, i coniugi Maria e Piero Camilla. A questo si aggiunga che il testo fu vergato in anni di turbolenze politiche, ovvero i moti del 1820-21 e l’insurrezione piemontese, e si capisce come sia complessa anche la sola individuazione del nome del Comandante dedicatario. Inoltre la divisione di Cuneo comprendeva allora quattro province: Cuneo, Alba, Mondovì e Saluzzo: difficile capire dove si trovassero sia l’autore sia il Governatore.

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Le quasi cinquecento ricette contenute nel manoscritto rappresentano comunque un glorioso affresco di una cucina borghese, privata e familiare, in una città della provincia piemontese del primo ‘800. L’identità dell’autore rimane avvolta dal mistero: se la scrittura elegante e il tono farebbero pensare a una donna con un sano senso pratico, l’atteggiamento paternalista verso le Signore e la dedica al Governatore fanno invece supporre una impronta maschile. Chiunque lo scrisse aveva probabilmente fatto buoni studi e aveva esperienza: divide il lavoro in sedici capitoli, numera le ricette, e, pur con qualche svista di ortografia, usa una lingua colta con termini ricercati come eziandio, pregiudiziale, vacuo, venustà, exempli gratia... E costruisce periodi complessi con una bizzarra punteggiatura che, più che alla sintassi, sembra votata a scandire i tempi di esecuzione della ricetta.

Dalle ricette emerge un forte legame territoriale in cui prevale il burro sull’olio; in cui abbondano l’aglio, le acciughe, il prezzemolo, le polpette, certi tipi di frittelle, torte di verdure e stufati. C’è una grande attenzione a tutto quel che oggi definiremmo “a chilometro zero”: vi si usano conigli, lepri, tassi, lumache, rane, gamberi, anguille e persino testuggini palustri e porco spinoso. Si utilizzano pampini, germogli di luppolo, salvia, malva, acetosella e naturalmente non si spreca: tra gli ingredienti compaiono anche i torsoli dei cavoli, i filamenti e le scorze di zucca, i gambi degli spinaci, ma non si dividono nettamente le preparazioni dolci da quelle salate. In mancanza di strumenti di misura davvero precisi l’autore si affida alla sapienza innata delle cuoche a cui si rivolge, specificando di tirare la pasta con uno spessore uguale all’orlo di due scudi, oppure indicando una brancata di funghi secchi, un pocolino d’olio, un tantinello d’acqua, una bagatelluccia di farina o lardo, un bricciolino di erbe aromatiche.

Compaiono tantissimi termini dialettali o desueti che, letti oggi, contribuiscono a delineare e far meglio comprendere un mondo antico, fatto di caldaj, cazzeruole, berrettini, ramajuoli, cascio e butirro, pretrosemolo, persici, tartuffi e pattate. E presto la magniloquenza ingessata e faticosa delle prime pagine lascia il posto alla cucina vera e propria, ai suoi trucchi e segreti; a una dimensione famigliare, sobria, modesta e tuttavia benestante, poiché parliamo comunque di famiglie abbienti, in grado di mantenere una cuoca e altre persone di servizio.

Il confronto tra l’alto e il basso della gastronomia, tra i cuochi professionisti e le cuoche di quotidiana necessità è sempre interessante e utile e per comprendere davvero l’espressione gastronomica di un territorio. Ecco che, avvicinandosi a questi ricettari del passato ed evidenziandone pur sommariamente i tratti comuni e le vicende, si capisce meglio come la cucina del Piemonte di oggi sia figlia – nata nell’Ottocento – da un lato di quella ricercata cucina della corte sabauda, con le sue raffinatezze aristocratiche e con i suoi inevitabili legami con la Francia; dall’altro della sapienza antica e semplice delle cuoche borghesi delle province. Figlia di secoli di scambi tra i versanti delle Alpi, di occupazioni militari, di carestie, di gusti e varianti personali, di eccellenze, dimenticanze, di corsi e ricorsi della Storia, di mode della gastronomia, di ricette, prove, fallimenti e saporiti successi.

Autrice Beatrice Di Tullio del blog Betulla

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