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Il ricettario ufficiale di Netflix
Il ricettario ufficiale di Netflix è un libro di cucina decisamente sopra ...
Pubblicazione: 10/09/2015
“Ormai me reggo su ‘na cianca sola. – Diceva un grillo – Quella che me manca m’arimase attaccata a la cappiola […]“. Ripeto tra me e me la storia del grillo di Trilussa (“Favole romanesche”, 1901), imparata a memoria da bambina, mentre percorro la stretta strada dissestata che, costeggiando il Monte dei Cocci del quartiere di Testaccio, a Roma, mi porta all’ingresso del Mattatoio. Lo chiamiamo ancora così noi romani di una certa età. È l’EX-mattatoio, in verità. Chiuso dal 1975. Nei decenni successivi a quella data si è trasformato, ospitando al suo interno: il Museo MACRO di arte contemporanea, una delle facoltà di architettura della capitale, il centro di cultura omosessuale M. Mieli con gli eventi serali di “Muccassassina” (geniale scelta del nome!), il mercato e spazio espositivo di economia ecologica ed equo-solidale, una scuola di musica e tanto altro, comprese occupazioni e centri sociali. In un certo senso, il vecchio macello ha ceduto il passo ad un nuovo “macello”; il primo era di morte, il secondo è vitale e creativo.
In questo luogo si può capire la storia di un piatto romano tra i più celebri: la coda alla vaccinara. Mi sembra di sentire la voce del vaccinaro appoggiato al muro di una stalla, un po’ curvo, braccia e mani forti:
”A’ more’, che stai a cerca’? Qua nun ce stà più gniente!” E osservando il mio sguardo che scandaglia ogni angolo del posto, continua: “Capirai, me ce so’ rotto l’ossa qua dentro.” E mi racconta che i vaccinari, detti anche “scortichini”, erano le persone che svolgevano nel mattatoio il lavoro più faticoso di scuoiare le carcasse degli animali. E per questo venivano ricompensati con le parti meno pregiate delle povere bestie, il famoso quinto quarto (gli organi interni o frattaglie, parti della testa, coda, lingua, zampe), che finivano nei tegami delle cucine del quartiere, assai povere di ingredienti ma piene di tanta buona volontà. E di tempo. Per trasformare quei pezzi di carne in piatti saporiti e nutrienti.
Le voci di un gruppo di studenti universitari che passano fuori mi distolgono dal sogno e mi riportano al presente. Devo parlare con persone reali, non con i fantasmi. Voglio sapere com’è nata la ricetta. O meglio, più che l’origine (intuibile dal nome), di sicuro nelle case dei vaccinari e di chi aveva il compito di sfamare i lavoratori della zona, la sua codificazione. Chi meglio di “Checchino” può spiegarmelo?!
Il ristorante “Checchino dal 1887” nasce come molti altri nel quartiere Testaccio come osteria, adatta a soddisfare una clientela di industriali, commercianti, negozianti e impiegati della pubblica amministrazione, che qui lavoravano e amavano il buon cibo accompagnato dal vino rinomato dei Castelli Romani. Non devo fare altro che uscire dal Mattatoio ed attraversare la piazzetta. Ecco l’ingresso. Dove mi aspettano Francesco ed Elio Mariani, eredi di quinta generazione insieme alla sorella Marina. Elio mi racconta che i tre fratelli sono cresciuti proprio curiosando all’interno del Mattatoio. Mi spiega che la loro osteria, come consuetudine nella zona, era inizialmente solo una mescita di vino, dove i “fagottari” (le persone che venivano da fuori e si portavano il “fagotto” con le provviste da mangiare) prendevano un tavolo e ordinavano da bere consumando il cibo di casa. Poi, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, con l’apertura del Mattatoio, le mescite iniziarono a preparare i piatti a base di carne: animelle fritte, fegato in padella, coratella con i carciofi, zampetti in umido, rigatoni con la pajata, coda alla vaccinara.
Mi interessa sapere come probabilmente sarà cambiato il piatto nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Le carni oggi sono più magre e ciò incide sul loro sapore. L’attenzione alla materia prima è tutto. I Mariani si affidano a produttori che rispettano il più possibile i ritmi di crescita naturali dell’animale. Stessa cosa per i prodotti lavorati utilizzati. La ricetta originale prevedeva l’uso di lardo, che attualmente viene in parte sostituito dall’olio d’oliva. Colpa delle diete. Peccato! C’era poi l’abitudine di cuocere insieme alla coda i gaffi, le guance della bestia. Era l’unico modo per mangiarli, perché sono durissimi. Si può capire: stiamo parlando di un ruminante. Oggi questa è una parte quasi impossibile da trovare. E poi arriviamo alla faccenda dell’utilizzo di uvetta, pinoli e, addirittura, cacao amaro. L’uso di questi ingredienti non c’era in origine; è un aggiunta successiva, quando il piatto si è diffuso tra le classi benestanti. Molto benestanti. Nobiltà e papato ne avevano disponibilità e li usavano per arricchire e ingentilire una ricetta altrimenti troppo forte per i loro palati.
E il vino? Non credo ci sia mai stato un abitante di Testaccio che si sia fatto fuori un piatto di coda senza un buon bicchiere. Poiché ho di fronte a me non uno, ma due, sommelier, posso imparare che la ricetta si abbina senza scomporsi ad un Brunello di Montalcino o persino ad un Bordeaux. Ma rivolgendoci ai vini laziali, ci orientiamo verso un Cesanese del Piglio DOCG (come Il torre del Piano) o uno Syrah (ad esempio il Tellus). A proposito di bottiglie, la cantina del ristorante “Checchino” sono uno spettacolo. Come altri ambienti sotterranei del quartiere, testimoniano l’origine del Monte Testaccio: un ammasso ordinato di “testae” (da cui il nome del quartiere: “testaculum”), cioè anfore romane, in cui venivano trasportati principalmente olio e vino. Esemplare la capacità di riciclaggio: i contenitori venivano spaccati in modo da dividere il collo, la pancia e i manici, poi sovrapposti separatamente, a formare ammassi e muri omogenei, così che le parti uguali aderissero in modo stabile. La nostra raccolta differenziata ai loro occhi apparirebbe ridicola. Ahimé!
Mi congedo dal ristorante e da Testaccio ripercorrendo la strada a ritroso e mi permetto una riflessione filosofica. Avvicinandosi alla storia dei nostri piatti, rifletto sull’espressione “Siamo ciò che mangiamo” di L. Feuerbach (“Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia”, 1862), oggi ripetuta come unico mantra. Mi viene spontaneo affiancarla al suo opposto (par condicio?): quello che noi siamo (eventi storici, trasformazioni sociali, evoluzione culturale) crea e modifica la natura e la qualità di ciò che mangiamo. Il cibo non è la causa, semmai l’effetto. Ma il sole è già alto. E si avvicina l’ora di pranzo.
CODA ALLA VACCINARA
Sebbene esistano diverse versioni e varianti sugli ingredienti e le preparazioni, mi sono attenuta alla ricetta fornita dal ristorante “Checchino dal 1887”, Via Monte Testaccio, 30 – Roma
Le quantità che riporto sono dedotte sulla base delle indicazioni fornite dalla fonte citata.
Per 4 persone.
Tempo: 45 minuti di preparazione, 4-5 ore di cottura.
Ingredienti
Una coda di bovino adulto (si trova già tagliata in pezzi di circa 5-7 cm di spessore e pronta per la cottura)
50 g di lardo
1 dl di olio extra vergine d’oliva
1 cipolla dorata tritata
2 spicchi d’aglio
2 chiodi di garofano
200 ml di vino bianco secco (si preferisce quello dei Castelli Romani)
1,5 kg di pomodori pelati
500 ml circa di acqua bollente (o brodo)
Sale
Pepe
150 g di coste di sedano bianco
20 g di pinoli
20 g di uva sultanina ammollata in acqua
In un tegame con fondo spesso e bordi alti fate soffriggere il lardo con l’olio. Unite i pezzi di coda e rosolateli da ogni lato. Aggiungete poi la cipolla tritata, gli spicchi d’aglio, i chiodi di garofano, sale e pepe. Lasciate dorare per qualche minuto, quindi bagnate con il vino e fate evaporare lentamente chiudendo il tegame con il coperchio. Dopo un quarto d’ora aggiungete i pomodori pelati tagliati in pezzi e lasciate cuocere ancora quindici minuti. Unite l’acqua (o brodo) bollente nella quantità sufficiente a ricoprire tutti i pezzi di coda. Chiudete con il coperchio e lasciate cuocere a fuoco dolce per 4 ore o finché la carne sia così tenera da staccarsi dall’osso, aggiungendo un poco di acqua ti tanto in tanto se necessario.
A fine cottura, lavate le coste di sedano, privatele dei filamenti esterni e tagliatele in pezzi di 10 cm di lunghezza. Sbollentatele per 5 minuti in acqua salata. Scolatele e fatele insaporire in un tegame a parte con 300 g del sugo di coda, aggiungendo anche i pinoli e l’uvetta e lasciandole cuocere per 5 minuti. Unite questa salsa di sedani ben calda alla coda al momento di servire.
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Non so chi abbia indicato la ricetta , ma non va bene.In primis, il sedano, di tanto peso quanto la coda , va fatto bollire lungamente e non certo scottare solo qualche minuto, altrimenti non risultera’ commestibile;secondariamente, il cacao amaro, da utilzzare come legante e gia’ conosciuto alla fine dell’800 quando nasce la vaccinarea, e’ fondamentale, come del resto insegnano le ricette tradizionali e coeve dei butteri maremmani a base di cinghiale. Stefano Moretti
Gentile Stefano, come indicato nell’articolo, trattasi della ricetta del Ristorante Checchino dal 1887, e come accade per la gran parte delle ricette tradizionali, non esiste una versione univoca ma una ricetta di riferimento con innumerevoli varianti in base agli usi e alle consuetudini. Quanto al sedano, esso è commestibile anche da crudo, perciò la breve cottura che subisce non lo renderà certo immangiabile ma, al più, leggermente croccante. Cordiali saluti
si, ma Checchino mette il cioccolato amaro…