Settimana del Cibo da Strada

Lista degli argomenti

Settimana del Cibo da Strada

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Ambasciatrice Anna Maria Pellegrino per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

Credo che sia un artista chiunque sappia fare bene una cosa; cucinare, per esempio.
Andy Warhol

Immaginiamo la piazza e la strada come un palcoscenico, gli ambulanti e gli avventori come gli attori e il cibo di strada come un copione da interpretare ogni giorno e ogni giorno diverso.
La vita della gente comune si è sempre svolta in strada e in piazze dove si incontravano coloro che volevano vendere e coloro che volevano comprare, dove si andava per curiosare e chiacchierare, magari anche spettegolare, per vedere e farsi vedere, per discutere i destini del mondo e definire affari. La piazza e le sue diramazioni in strade, vicoli e cortili, ultima tappa di un percorso quotidiano dall’esterno all’interno delle abitazioni e viceversa.

La piazza come espressione economica, nella quale coabitavano i negozianti e gli ambulanti. Luogo nel quale condividere i rari momenti festosi concessi a quotidianità faticosamente intense e luogo dove il cibo si trasformava per un consumo veloce e deliziosamente appagante: l’ortaggio diventava spuntino veloce, le frattaglie deliziose mousse, le uova spezzafame economici, il mais gustosa polenta servita con morbido burro, le pastelle di uova e farina, arricchite con uvetta e pinoli, stuzzicanti frittelle.
Dal Nord al Sud del nostro paese ogni piazza esprimeva “specializzazioni” diverse e si andava dal “fritolero” veneziano al “trippaiolo” romano (piatto d’obbligo del sabato), passando per il “maccarunaro” napoletano, vera istituzione, quando gli spaghetti si mangiavano per strada, senza forchette e senza farsi tanti problemi. E, naturalmente, non si può non citare il pizzaiolo: celebre la clip del film “L’oro di Napoli” in cui una meravigliosa Sofia Loren rientra dalla Santa Messa, toglie il casto velo, indossa un grembiule e offre al metronotte di rientro dal lavoro o alla massaia del terzo piano pizza fritta e tanti sorrisi.

UNA STRADA LUNGA DUEMILA ANNI

Ma cosa ci faceva il cibo in strada? E’ una domanda lecita: bene o male tutti avevano una casa, o più semplicemente un tetto sopra la testa, dove avveniva la preparazione dei pasti e il consumo collettivo. Si usciva per far la spesa, certo, qualche chiacchiera, per guardare e per farsi vedere, ma prima o poi bisognava rientrare nell’intimità delle proprie case.
Perfetto, allora vi invito a salire sulla macchina del tempo – non spingete, che c’è posto per tutti – ed a fare con me un salto nell’antica Roma. Meglio ancora, andiamo a Pompei a trascorrere qualche giorno di vacanza.
Atterriamo e… attenzione! Uscite con calma che c’è un viavai che neanche nelle nostre metropoli: uomini d’affari e diplomatici, liberti e mercanti di schiavi, viaggiatori in cerca di “distrazioni”, uomini e donne in cerca di una seconda occasione. Sono tutti in movimento: a piedi, a cavallo, in carrozza o in portantina. Un caos! E un frastuono che per ristorare lo spirito e le orecchie diventava necessaria una capatina al giorno alle terme, così da poter continuare a parlar d’affari con più serenità.
Caspita, che giornata, non ci vedo più dalla fame. Appunto, e visto che i distributori automatici faranno la loro comparsa nelle nostre vite solo tra duemila anni, in qualche modo dobbiamo pur nutrirci: alle persone in movimento serviva del cibo ugualmente in movimento, in strada, appunto.
Cibo nutriente, ma facile da mangiare, che non comporti i tempi lunghi necessari ai pranzi familiari o di lavoro. Caldo e gustoso, ma soprattutto espresso.

A questo provvedevano le popinae o thermopolia, semplici osterie attrezzate con una cucina che dava sulla strada, con una sorta di solido banco costruito in mattoni e dotato di ampi fori dove alloggiare le anfore contenenti il vino mesciato con il miele e spezie, caldo o freddo a seconda della stagione, polpette di ceci o di verdure e il mitico garum, una sorta di salsa di pesce macerato per giorni con acqua e sale del quale i Romani ne erano davvero golosi. La puls, la sobria polentina preparata con semola di farro, orzo e miglio, venne presto soppiantata da pane e focacce. Si acquistava il cibo e lo si consumava in piedi, un po’ come nei film degli anni ’80 dove si iniziarono a vedere i primi pasti plain-air, sbrodolosi hot-dog consumati in fretta da manager rampanti all’ombra della Grande Mela.
Non ci si sedeva, non era necessario, soprattutto perché all’interno delle osterie o locande spesso bivaccavano brutti ceffi e signorine insistenti. Inoltre lungo le vie ed a tutte le ore del giorno venditori specializzati ambulanti offrivano la loro mercanzia: gli insiciarius stavano alle polpette come i crustularius ai rustici di pasta lievitata e come dire di no al pistor dulciarius ed alle sue dolci preparazioni a base di fichi, spezie, semi di sesamo?

Ma ogni buon pranzo finisce e anche quelli che vedevano protagonisti i cibi di strada furono sparecchiati con una certa velocità: Unni, Lanzichenecchi e barbari assortiti fecero scempio dell’impero, ma soprattutto delle città. Per salvarsi la popolazione visse una diaspora verso campi incolti e boschi immensi e lì rimase per tutto il Medioevo: erano finiti i tempi in cui tutto era a disposizione, il menù seguiva la stagionalità e le bizze del meteo e, come se non bastasse, ci si metteva anche la Chiesa, che imponeva digiuni ed astinenze. Cominciò ad essere presente nelle poche locande la birra e anche la carne di maiale per pochi coraggiosi viaggiatori, i grandi signori potevano cibarsi di selvaggina ed i poveri facevano le nozze con i fichi secchi, ad averceli.
Furono secoli bui: invasioni, lotte e guerre si alternavano a carestie ed epidemie e l’idea di andare a mangiare un boccone fuori casa non riscuoteva più tanto successo.

Ci pensarono i Toscani, costruttori di città e di banche, a dare inizio ad una nuova rinascita dell’Urbe e con essa ritornò tutto l’ambaradan dell’Impero. Nel XIV secolo i mercati vennero arricchiti di olio di qualità, di pesci dei laghi vicini, degli ortaggi di Scandicci e del vino del Chianti. Ripresero con vigore le specializzazioni professionali e dove c’è business ci sono mercanti, con la loro necessità di nutrirsi velocemente e senza tante formalità. Del resto, la forchetta fece la sua fugace apparizione nell’estate del 1004, a Venezia: il giovane doge Giovanni Orseolo II contrasse nozze con la principessa bizantina Maria Argyropoulaina, figlia del principe bizantino Argiro e nipote dell’imperatore Basilio II. Era molto giovane e si presentò al pranzo di nozze con uno strano strumento, schifiltosa com’era, che scatenò l’ira dei censori lagunari dell’epoca. La forchetta, o piron, venne descritta come strumento del demonio e vista con sospetto fino all’invenzione delle liste nozze, ma questa è un’altra storia.

Mangiare con le mani non era un problema, dunque, neppure tutti quei cibi che i Conquistadores avevano portato dal nuovo mondo: mais, patata, peperone, tacchino, pomodoro e il “brodo degli indiani”, ovvero la cioccolata. E fu proprio questa nuova varietà gastronomica che trasformò l’offerta del cibo di strada: non solo locande con vista strada o cuochi itineranti, come appunto mi piace definire i venditori ambulanti, ma veri e propri chioschi, stanziali, che necessitavano di licenze, sottoposti ai controlli delle autorità competenti.
Andare in giro a vendere cibo, crudo o cotto, diventò il mestiere di chi non aveva mestiere, in quanto l’investimento necessario era minimo ed era consentita anche l’iperspecializzazione, grazie alla cortissima catena di distribuzione, direttamente dal produttore al consumatore.

C’è un aspetto del cibo di strada che incuriosisce: mentre nella preparazione del cibo la figura femminile era praticamente assente, così non accade nella vendita. Venditrici di latte e di ortaggi, di minestre e di frittelle erano figure consuete e non scatenavano certamente l’ira del censore di turno.

Due sono i libri che nel tempo hanno raccolto tutti i mestieri della “piazza”, corredati di spiegazioni approfondite per ogni attività professionale riportata ed arricchiti di tavole, nei quali si differenziano anche le diverse attività legate alla produzione ed alla vendita del cibo: “La piazza universale di tutte le professioni del mondo”, scritto da Tommaso Garzoni (1549-1589) ed edito a Venezia nel 1585 e “Le arti che vanno per via nella città di Venezia” (stampate per la prima volta nel 1753 e riunite in un unico volume nel 1785) di Gaetano Zompini (1700-1778) incise all’acquaforte. Al piede di ogni incisione una terzina di don Questini, parroco di Santa Maria Mater Domini, descrive in dialetto veneziano le incisioni, regalandoci una piccola enciclopedia di informazioni sulla cultura materiale della Venezia di metà Settecento. Così il venditore di zaletti, biscotti tipici veneziani: “Appena è dì, che crio: caldo el zaletto, / Caldo che’l brova, caldo col zebibo: / E ghe n’ho da do soldi, e da un marchetto”. Il venditore di fritole è invece così descritto: “Su le sagre, e spesso anca in altri lioghi / Fritolazze mi vendo col zebibo / Che ve impromet- to le ghe impata ai cuoghi”. Per le calli di Venezia e nelle piazze si vendeva anche la polentina, accompagnata da burro e formaggio (cit. Martina Bosello, bollettino nr. 33, Biblioteca Internazionale La Vigna).

La geografia del cibo di strada, dunque, è ben definita: se nelle calli veneziane si poteva incontrare il “fritolero”, il “polentaro”, il venditore di “dolce de vedelo”, ovvero il sangue di vitello addolcito e cotto, il venditore di “vovi rossi”, uova sode, e “zaleti caldi”, nelle strade della metropoli milanese a fianco del “Bergamin”, il venditore di formaggio che solitamente proveniva dalla Bergamasca, o al “Fregujatt”, venditore di fregole, briciole, di dolce, si trovavano “Quel del gamber” e “Quel del giazz” ed il mitico “Quel del pedalei”, venditori di castagne già “pelate”, se proprio non si voleva passare da “Quel del Gnaccia”, ovvero del castagnaccio.

E nella capitale? Le “cose mangerecce” nella capitale si fanno, come dire, più gustose e, in sequenza, porchettari, trippaioli, ciambellari si contendevano piazza e visibilità con grattacheccari, melacottari (anche nella versione peracottari) e mostacciolari.

Nel Napoletano, complice una certa vivacità insita nel dna da tempi immemori, le specializzazioni erano tali e tante da non poter essere codificate, con somma rassegnazione di qualche storico; ma grande entusiasmo scatenavano ad ogni apparire il “Surbettaro”, sorbetti e gelati, il “Zeppolaiolo”, mitico friggitore di zeppole, il “Franfellicaro” fabbricatore di zuccherini dalle forme più svariate, il “Pizzaiuolo” in quanto la pizza, fritta e no, si cucinava lungo la via e naturalmente il mitico “Maccherunaro”. Come scritto sopra, la forchetta si perse nella nebbia delle usanze sospette ed i maccaruni si consumavano con le mani, come racconta Totò in “Miseria e Nobiltà“, del 1954.

In un intenso, ma sfortunato film, “Il giovedì” (1963), diretto da Dino Risi ed interpretato da uno stupefacente Walter Chiari, il padre separato ordina in un’osteria una golosa frittura di pesce per il malinconico figlio che viene da questi affrontata con la forchetta. Il padre vuole interrompere l’inutile formalismo e sbotta:

– Ma come lo mangi ‘to pesce?
– Con la forchetta.
– Ma è un modo barbaro il tuo, sai…
– Perché?
– Ma che posate! Butta via le posate. Il pesce si mangia con le mani. Così… Sai cosa sono le mani? Le mani sono le posate del re.

Il mangiare con le mani, senza la mediazione delle posate, è un atto di profonda intimità che si ha con il cibo e ci consente di affrontare il dualismo cibo-(corpo)-piacere senza sensi di colpa, di godere di un momento che non c’entra più nulla con la sopravvivenza, che abbatte barriere, crea complicità.
Provate ad immaginarvi mentre mangiate una caldissima mozzarella in carrozza, o un altrettanto goloso supplì, dinnanzi ad uno sconosciuto avventore: la mozzarella filante uscirà dalla nostra bocca e giocherà con le mani. Guarderemo negli occhi il nostro occasionale compagno di pranzo ed immediatamente gli sorrideremo, anche solo con gli occhi, complici in un atto di grande piacere e liberazione. Ed al nostro sguardo la risposta sarà sicuramente un sorriso altrettanto silenzioso e complice. Se non dovesse accadere non angustiatevi: è lui che ha dei problemi con il cibo, non certo voi.

Il cibo di strada, dato che il secondo Dopoguerra aveva portato con sè il desiderio di ordine e pulizia, rientrò nelle trattorie e nei bar di paese, relegato ad un consumo quasi nascosto, da non divulgare.
Le abitazioni che andavano via via a sostituire i cumuli di macerie venivano costruite più spaziose e con tutte quelle stanze, il tinello, la sala da pranzo, il salotto, adibite al ricevimento e alla rappresentazione della raggiunta serenità economica. Per la prima volta abitate anche da quelle classi sociali che da sempre avevano condiviso una sola stanza comune e per le quali consumare i cibi in strada o nelle corti era consuetudine.

Un’Italia, grazie al boom economico degli anni ’60 (nel 1962 il Pil annuo aveva una crescita dell’8,2%), in movimento frenetico: nascono le prime autostrade e con esse la poetica dell’Autogrill che offrirà, sotto forma di “Camogli” e “Apollo”, un cibo di strada, anzi di autostrada, rassicurante ed omologato ad ogni casello, da Agrate Brianza a Reggio Calabria.
Dalle frittelle a disco delle sagre di paese al panino globalizzato degli anni ’80 il passo è breve e testimonia l’inizio di una contaminazione gastronomica che vede ora l’antico porchettaio, che affettava ed offriva un piatto tanto caro ad Apicio e preparato secondo segretissime ricette di famiglia, trasformarsi nel più stanziale “kebabbaro”.

LA RIVINCITA DEL CIBO DI STRADA: IL MANIFESTO

Esiste un manifesto del cibo di strada italiano a definire l’etica di un cibo tanto anarchico? Si, riportato a grandi lettere in un sito ad esso dedicato (www.cibodistrada.it) e diventato oggetto di convegni e premi nazionali, a testimonianza che comunque la qualità del cibo offerto per strada deve essere ottima.
Il cibo di strada, quindi, per essere definito tale, deve rispondere alle seguenti regole:
ADERENZA ALLA TERRITORIALITÀ: il cibo di strada deve essere collegato al territorio attraverso una tradizione gastronomica e/o l’utilizzo di materie prime specifiche, preferibilmente certificate (DOP, IGP, BIO).
FRUIBLITÀ e CONSUMO: il cibo di strada deve essere servito in monoporzione e confezionato in maniera da potersi mangiare ovunque.
ARTIGIANALITÀ DELLA PRODUZIONE: il cibo di strada deve essere fatto con l’apporto della manualità.
ECONOMICITÀ: il cibo di strada deve essere conveniente rispetto ad un pasto servito.
TRADIZIONE O ORIGINALITÀ: il cibo di strada deve essere elaborato seguendo una ricetta tradizionale o un’interpretazione originale e creativa.
FELICITÀ: il cibo di strada deve procurare una sensazione non solo di sazietà, ma di benessere.

E nel resto del mondo? Visto che tutto il mondo è paese, il manifesto non è poi così differente: sarà solo diverso il cibo offerto a testimonianza di consuetudini che si perdono nel tempo. In fin dei conti, si tratta semplicemente di cambiare nome a piatti economici, tradizionali e che rendono felici: la frittella diventerà waffel, il sardone fritto fish & chips e le verdure in tempura si trasformeranno nelle pittule salentine.

Il cibo di strada è un’espressione culturale assai complessa, quindi, un mix di tradizione e originalità, territorio e qualità: un portatore sano di felicità.

Bigliografia:
C’erano una volta di cibi di strada, Carlo G. Valli
Street food all’italiana, Clara e Gigi Padovani
Confraternita del gnocco d’oro, Luca Bonacini
In punta di forchetta, Bee Wilson
La storia di ciò che mangiamo, Renzo Pellati
L’arrosto argentino, Massimo Carlotto
Hostaria Cinema, Giancarlo Rolandi
Venezia in cucina, Carla Coco
Paninoteche e Street Food, Davide Paolini
Il cibo come cultura, Massimo Montanari
Bistecche di formica e altre storie gastronomiche, Carlo Spinelli
Babel Food, Franco La Cecla
Cibi di strada: Italia del Nord, Toscana, Umbria, Marche, Stanislao Porzio

La foto di copertina è di Bagliori di Sicilia

Partecipano come contributors:

Donatella Bartolomei, Tagliatelle fritte di Monterubbiano
Mariella Di Meglio, Brodo di polpo
Corrado Tumminelli, Baccala’ fritto
Lucia Melchiorre, Frittatine di Pasta…vi presento un pò della mia Napoli
Camilla Assandri, Friselle “fresca estate”
Daniela Ceravolo, Pane “cunzato”, cibo da strada siciliano
Sonia Nieri, zonzelle…quando noi bambini…

11 commenti

  1. Bello, bello, bello E comunque, anche se da queste parti in strada al massimo si andava di corsa in bicicletta per raggiungere il posto di lavoro, per me il cibo più buono è SEMPRE quello che mangio seduta su un muretto, oppure a spasso, o mentre visito un posto nuovo, un nuovo paese. Non ho mai avuto problemi a mangiare qualsiasi cosa in qualsiasi posto… credo sia questa la felicità di cui parla il manifesto.

  2. Un articolo ricco che riesce a darti una visione completa dell’argomento trattato, tante curiosità e notizie che praticamente ignoravo.
    Secondo me il cibo da strada è lo specchio del territorio, delle tradizioni che ti permette di conoscere una realtà; e poi non c’è nulla di più gustoso che sporcarsi mangiando!!!

    1. Grazie Donatella ed hai centrato proprio l’ispirazione: la traduzione recente in “street food” ha banalizzato un piatto ricco di duemila anni di storia. Noi ce la mettiamo tutta per andare dalla parte opposta. Verso il cibo, appunto.

  3. Ho avuto finalmente un attimo per fermarmi e godere di questo articolo come si gode di un fragrante panino stracolmo ed un birra fresca seduti finalmente all’ombra, con i piedi che chiedono pietà.
    Un viaggio nel tempo, un film bellissimo che ho visto centellinando parola per parola, seguendo la scia della tua meravigliosa conoscenza, che sai divulgare con divertimento, umiltà, piacere.
    Sono arrivata in fondo delusa che fosse terminato, proprio come con una ciambella troppo buona o un cartoccio di frittelle che si spera infinito.
    Sei una grande narratrice, bisogna ripetertelo….devi scrivere più spesso.
    Grazie Anna, bellissimo bellissimo articolo.

    1. Hai ragione circa il fatto che dovrei scrivere più spesso in quanto è come entrare in una sorta di trance e far parlare personaggi, fatti ed ingredienti, senza alcuna mediazione da parte mia. Grazie Patty per avermi letta ed essere salita nella macchina del tempo.

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