Commemorazione dei defunti e banchetto funebre: storia e tradizioni

favette dei morti venete

La commemorazione dei defunti e il banchetto funebre non sono solo un rituale religioso, ma anche delle tradizioni ben radicate nella nostra cultura, volte ad onorare i morti, come se fossero ancora in vita.

Fin dalla notte dei tempi, in alcune parti del mondo, si è andata sviluppando una stretta relazione tra morte e cibo; le motivazioni per cui il cibo ha assunto grande importanza in un tale contesto variano da cultura a cultura.

Sulla base di ciò si potrebbe quindi affermare che i morti mangiano anche loro ma, essendo anime, si nutrono dello spirito del cibo e non certo della sua materia.

Il cibo veniva preparato con amore, così che il defunto si sentisse ancora benvoluto e parte integrante della famiglia.

Banchettare sulle tombe e offrire cibo ai defunti è una delle pratiche spirituali più antiche.

Tra Romani, Greci, Etruschi e in tutto il bacino del Mediterraneo, esisteva un linguaggio alimentare specifico, fatto di riti ancestrali.

Cibo dei morti

Presso l’antica Roma, il cibo dei morti era costituito dalle fave; si credeva che tali piante, avendo il fusto privo di noduli, fungessero da collegamento tra la terra e l’oltretomba, inoltre i suoi fiori bianchi con sfumature violacee avevano una caratteristica macchia nera, che ricordava la lettera greca theta, iniziale della parola greca thànatos, che significa morte.

A partire dal X° secolo, le fave divennero cibo di precetto nei monasteri, durante le veglie di preghiera per la commemorazione dei defunti. Per la stessa ricorrenza venivano usate come cibo da distribuire ai poveri, o da cuocere insieme ai ceci e lasciare a disposizione dei passanti agli angoli delle strade.

In Grecia, invece, il cibo dei morti era rappresentato dalla melagrana.

Secondo la mitologia greca, Persefone, rapita da Ade, fu condannata a rimanere negli Inferi per aver mangiato proprio questo frutto, considerato il cibo dei defunti.

Fra i cristiani ortodossi, un cibo in particolare è associato alla morte: la koliva, ovvero il grano bollito condito con miele, zucchero e semi di melagrana, preparato in occasione della commemorazione dei defunti.

Il grano simboleggia la morte e la resurrezione del defunto, come scritto anche in questo versetto del Vangelo: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Giovanni:12:24)”.

La metafora della vita umana, paragonata alla vita della pianta, è un palese tentativo di negare che la morte dell’uomo possa essere definitiva.

L’origine di Halloween

Ognissanti e la commemorazione dei defunti sono due feste del calendario liturgico dell’Occidente cristiano ma non tutti sanno che sono un retaggio di culti pagani celtici, dai quali deriva anche la festa americana di Halloween.

Halloween ha origini rintracciabili in Irlanda, quando la verde isola era dominata dai Celti, popolo di pastori la cui vita era scandita dai ritmi dell’allevamento del bestiame. Alla fine della stagione estiva i pastori portavano a valle le loro greggi, per prepararsi all’arrivo dell’inverno e quindi all’inizio del nuovo anno.

Per i Celti l’anno nuovo iniziava infatti il 1° di novembre e non il 1° di gennaio come il calendario gregoriano.

Il passaggio dall’estate all’inverno e dal vecchio al nuovo anno veniva celebrato con lunghi festeggiamenti, una specie di capodanno chiamato Samhain, che significa fine dell’estate.

La morte era il tema principale della festa, in sintonia con ciò che stava avvenendo in natura: durante la stagione invernale la vita sembra tacere mentre in realtà si rinnova sottoterra, dove tradizionalmente riposano i morti.

Il grano è appena stato seminato, è “sceso negli inferi”, nel cuore della terra, e comincia il suo lento cammino verso la futura rinascita. I Celti credevano che alla vigilia di Samhain, il 31 Ottobre, gli spiriti dei morti potessero unirsi al mondo dei viventi, errando indisturbati sulla terra.

Successivamente, attraverso le conquiste romane, Cristiani e Celti vennero a contatto ed iniziò l’opera di evangelizzazione delle Isole Britanniche, durante la quale la Chiesa tentò di sradicare i culti pagani ma non sempre vi riuscì.

Samhain non fu completamente cancellata ma fu in qualche modo cristianizzata, tramite l’istituzione del giorno di Ognissanti il 1° Novembre e, più tardi, attraverso la commemorazione dei defunti il 2 Novembre.

Halloween, parola che deriva dalla forma contratta di All Hallow’s Eve, che significa vigilia di tutti i Santi, si diffuse in tutta America, quando, in seguito alla terribile carestia che investì l’Irlanda verso la metà del XIX secolo, molte persone decisero di abbandonare l’isola per tentare fortuna negli Stati Uniti, mantenendo vive le tradizioni ed i costumi della propria patria.

Questa festa ben presto si estese a tutto il popolo americano, diventando quasi una festa nazionale.

Il banchetto funebre e le tradizioni regionali in Italia

In Italia, la sera della vigilia dei morti, tra il 1° e il 2 novembre, si praticano una serie di comportamenti e di rituali collegati al cibo, che manifestano il rapporto che i vivi cercano di riallacciare con i defunti. 

Mangiare determinati cibi, banchettare sulle tombe o lasciare la tavola imbandita per gli spiriti, permette di ristabilire quel legame che la morte ha spezzato.

Il cibo, con il suo valore conviviale, familiare e sociale, rende l’azione del mangiare tanto importante quanto il pregare ma con un significato ancora più profondo. Il cibo dei morti poteva essere consumato o meno dai vivi.

Nel primo caso stabiliva con i defunti un legame biunivoco: mangiato dai vivi, li sfamava entrando nel loro corpo e nello stesso tempo nutriva anche i morti, salvando le loro anime. Nel secondo veniva riservato solo a questi ultimi, nella certezza che potessero tornare nelle proprie case per consumare il cibo preparato loro dai parenti. Da qui l’usanza, in varie regioni italiane, di imbandire una tavola completa la sera precedente il 2 novembre, lasciandola così per tutta la notte.

In quelle regioni italiane dove la tradizione si è mantenuta più viva, è ancora presente la credenza che i morti passino in processione nelle città o nei paesi e quindi i parenti si adoperano per preparare del cibo che viene lasciato sul davanzale delle finestre.

In Campania e in Lombardia, un tempo, era abitudine lasciare in cucina un secchio o un vaso d’acqua per dissetare i defunti. In Piemonte si aggiungeva un posto a tavola, per i morti che sarebbero arrivati in visita. In Puglia ed in Toscana la tavola veniva allestita appositamente mentre in Sardegna non veniva sparecchiata, per consentire ai defunti di rifocillarsi durante la notte. In Basilicata e Calabria, presso le comunità albanesi, si usava andare al cimitero di sera e lì preparare un banchetto sulla tomba dei propri cari, invitando tutti i passanti a prenderne parte.

In Sicilia la commemorazione dei defunti era, ed è ancora oggi, una vera e propria festa dedicata ai bambini, con doni, frutta e dolci portati in regalo dagli spiriti dei parenti.

La questua, infine, era un’altra usanza molto diffusa in tutta Italia, in particolare in Sardegna, dove i bambini, prima di cena, andavano a bussare alle porte delle case dicendo “Morti, morti!”, ricevendo in cambio dolci o frutta.

Festa dei santi e dei morti: tradizioni culinarie italiane

Tra le preparazioni tipiche delle varie regioni o città, spiccano su tutte i dolci.

Dolci che, il più delle volte, ricordano per la loro forma o consistenza il tema della morte, come le fave dei morti, dei deliziosi pasticcini alle mandorle, dalla forma ovale e leggermente schiacciata oppure le ossa di morto, dei biscotti secchi dalla forma allungata, a volte ricoperti di glassa, cioccolato o zuccherini colorati.

A Napoli troviamo i torroni dei morti, detti anche morticelli, con il ripieno morbido, ricoperti di cioccolato e spolverati con granella di nocciole o pistacchi. In Romagna si festeggia con la piada dei morti a base di uvetta, noci, mandorle, pinoli e miele.

La Sicilia, invece, ci regala un trittico sorprendente: la frutta Martorana, una riproduzione di frutta realizzata con farina di mandorle e zucchero, le dita di apostolo, delle superbe crespelle arrotolate e ripiene di ricotta e i pupi di zucchero, delle statuette di zucchero colorate raffiguranti paladini o figure maschili e femminili. In un bellissimo libro, La zia Marchesa, la scrittrice Simonetta Agnello Hornby ci racconta in maniera meravigliosa le tradizioni siciliane per la commemorazione dei morti e di come venisse vissuta dai bambini nella Sicilia di fine ‘800.

In Puglia, nella zona di Foggia, è presente il grano dei morti o colva, una preparazione particolare a base di chicchi di grano, lessato e condito con mosto cotto, semi di melagrana, cioccolato, noci e canditi.

Infine in Sardegna, si preparano dei dolcetti chiamati pabassinas o pabassinos, che devono il loro nome alla pabassa, cioè all’uvetta passa presente nel loro impasto, insieme alla sapa, alla frutta secca ed al miele.

Nella parte meridionale dell’isola vengono preparati aromatizzandoli con cannella e vaniglia mentre nella parte settentrionale prevalgono le scorze di arancio e di limone, insieme ai semi di finocchio selvatico.

Nonostante i dolci rivestano un ruolo dominante, non possiamo dimenticare, in questi due giorni, l’importanza e la diffusione delle zuppe a base di fave e di ceci. Non c’è una ricetta specifica ma esistono tante varianti dove in alcune, è abitudine aggiungere anche la zucca. Una ricetta molto antica di origine piemontese, è quella della zuppa canavesana, a base di cavolo verza con pancetta o salsiccia, bagnata con brodo di carne e servita con crostoni di pane abbrustolito.

Gabriella Rizzo ci racconta di una tradizione piemontese, precisamente delle valli del cuneese in cui, anticamente, per la vigilia del 2 novembre si mangiavano le Barotte  o Ballotte, ossia castagne bollite (considerate il cibo dei morti sin dal Medioevo) e si beveva il vino nuovo.  La credenza popolare voleva che nella notte le anime dei morti facessero ritorno sulla terra e andassero nelle case dei propri cari dove avrebbero trovato la tavola imbandita in loro onore. Nella tradizione popolare le castagne avevano anche una valenza magica e benaugurante: per questo motivo erano considerate un dono prezioso in occasione del battesimo, oppure come gesto ospitale nei confronti degli invitati a un matrimonio, ben prima della diffusione dei confetti.

Silvia Tavella ci porta nella sua amata Liguria e ci fa conoscere le ricette liguri per il Giorno dei morti: zimino di ceci e bietole, stoccafisso con le fave e fave dei morti, dolci genovesi di pasta di mandorle. Era consuetudine la sera del primo novembre onorare e attendere i defunti, apparecchiando loro sia la tavola che il letto, pulendo con cura i vetri delle finestre e coprendo gli specchi. Silvia, nelle sue ricette, ricorda antiche storie e usanze, tradizioni ormai scomparse, che sembrano quasi narrate dalla collana di libri di miti storie e leggende.

Il cibo, ancora una volta, ci rivela la sua importanza dal punto di vista storico, culturale, sociale ed affettivo, non essendo mai fine a sé stesso. In questo contesto il cibo si carica di un significato simbolico ed assume un ruolo fondamentale. Come scrive l’antropologo Ottavio Cavalcanti “La tavola è dunque il luogo non unico, ma privilegiato, dove siderali distanze temporaneamente si annullano; il colloquio si intensifica o riprende; lo scandalo della morte è riassorbito e scongiurato; rapporti familiari e amicali si rinsaldano”.

Favette dei morti venete

Si dice che la tradizione delle Favette dei morti in Veneto nasca dalla tradizionale pasticceria Veneziana, famosa in tutto il mondo per essere una pasticceria semplice, fatta di poche materie prime. Può sembrare una pasticceria rustica, senza sovrastrutture un po’ come le persone, concrete, puntuali ma che arrivano dritte al cuore. E nasce proprio da una questione di cuore questa tradizione delle Favette dei morti. Un giovane veneziano dopo aver tanto navigato, spinto dalla nostalgia per la sua amata, decise che al suo ritorno a casa l’avrebbe chiesta in sposa.

Pensò quindi di portarle qualcosa di prezioso e di raro dentro ad uno scrigno che lui stesso aveva intagliato. Nei paesi del sud, aveva scoperto le fave, che a lui sembravano come grandi gemme, e quindi decise di inserirle nello scrigno. Dopo tanti mesi passati a bordo, rientrò a Venezia proprio la sera del 31 ottobre.

Si precipitò a casa dell’amata e davanti a tutta la famiglia la chiese in sposa, donandole lo scrigno con all’interno le fave raccolte mesi prima. Immaginatevi il disgusto della ragazza quando aprì lo scrigno!

Il povero ragazzo, umiliato dalla brutta figura, si precipitò con lo scrigno dal miglior pasticciere di Venezia e gli chiese di preparare dei dolci uguali a quelle brutte fave ma dalla sublime bontà!

Ricetta

Ingredienti

80 gr di pinoli
120 gr di mandorle
400 gr di zucchero
45 gr albume
bacche di vaniglia
1 uovo medio ha un albume che pesa all’incirca 30 gr, quindi ne serve uno e mezzo oppure un uovo  grande
un pizzico di bicarbonato di sodio

Per colorarle

1 cucchiaio di cacao
un cucchiaio di alchermes
colorante alimentare verde, ti consiglio di cercare la polvere di spinaci oppure di utilizzare la curcuma e preparare le favette gialle

Come si preparano…
Ti servirebbe un mixer
Versa i pinoli, le mandorle, lo zucchero e il bicarbonato di sodio nel mixer
Frulla tutto finemente.
Aggiungi l’albume un poco alla volta fino ad ottenere un impasto omogeneo
Suddividi l’impasto in quattro o cinque parti, una per ogni colore, lasciandone una neutra.
Aggiungi l’ingrediente colorante ad ogni parte di impasto.
Fai riposare l’impasto in frigorifero, coprendo con la pellicola a contatto.
Realizza con l’impasto dei filoncini come per gli gnocchi e ricava delle palline tutte della stessa dimensione.
Disponile, così ottenute, su una teglia coperta da carta da forno, quindi inforna a 140° C per 20 minuti circa.

6 commenti

  1. Mi piace tantissimo questo articolo e mi piacciono tanto le favette dei morti colorate, sembrano i piccoli brutti ma buoni che si fanno a casa mia per smaltire gli albumi.

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