Il consolo: un pasto funebre per ritrovare l’unità universale

offerta di consolazione

“Ogni dulur(e)/ a vuccun vaj(e)”, dice la mia centenaria nonna lucana. E io, piccina, non capivo: «Ogni dolore è portato via da un boccone», spiega la nonna. All’andante lucano fa eco l’antico proverbio siciliano: “Ogni pena, ogni dogghia,/pani e vinu la cummoghia”. E quale dolore più grande della morte di un affetto? Come ricostituire l’unità (psichica) dopo la definitiva perdita di un elemento fondamentale della propria esistenza? Da soli non si può. Bisogna elaborare una soluzione culturale, rituale. Ed ecco la con-solazione: il rito funebre che interviene nel momento della frantumazione spirituale del lutto per non lasciare solo chi soffre. Il consolo è l’offerta di quel boccone, di quel pane e vino che parenti e amici portano nella casa del defunto per “mangiare la morte” e permettere di tornare a nuova vita: ripristinare la com-unione con l’universo.

Il consolo: origini e significato

L’ antichissimo rito del consolo perde le sue origini nella notte dei tempi. Da sempre e in ogni luogo l’uomo ha avuto come prima necessità l’individuazione di strategie, psichiche e sociali, per l’elaborazione del lutto. Da sempre e in ogni luogo si “mangia” la morte. Si “manduca” il pasto funebre perché è la prima funzione “attiva” dell’uomo: “mangiare l’universo” significa spezzarlo, manipolarlo, masticarlo per dissolverne le forme. Masticare la forma dell’universo, compresa tutta nel gesto simbolico della manducazione, significa affermare la vacuità e l’inconsistenza dell’esistente: se nessuna forma permane nell’universo allora anche la morte è “digerita”, trasformata, per tornare al ciclo unitario, lì dove non c’è forma ma semplicemente vita. Mangiare è da sempre l’unico strumento per conservare la vita. Si mastica e si distrugge il pane, si beve e si disperde il vino, non l’unità. Non si distrugge la vita.

Il gesto rituale e simbolico del pasto funebre assume un significato più profondo nell’offerta sociale del consolo. Come il cibo, anche la lingua di un popolo è l’effetto del manducare: il fondo semantico del termine con-solo è il latino solus dall’infinito solari (lenire). Se de-solare è lasciare solo, allora il suo opposto è con-solare: l’universo sociale che circonda colui che è rimasto solo deve portare lo strumento per guarire. La mano amorevole, amica ricuce l’unità tra la casa del morto e il mondo esterno. Il cibo è il gesto che dona, rivitalizza e fonde l’uno col molteplice. Masticare il dono significa impadronirsi di una nuova dimensione che pone il singolo in com-unione con l’universo: lo rende l’uno illimitato, infinito. Così muore la morte.

Per ultimo il Cristo, prima l’azteco Huitzilopochtli, Dioniso, Osiride e si potrebbe continuare per ogni culto e per ogni luogo della terra: il dio si lascia mangiare per garantire la resurrezione (la trasformazione della materia). L’uomo, mangiando, recupera la sua deità e diventa immortale. In questa eterna ricerca di soluzione alla morte nasce l’Aldilà invisibile, il regno degli Spiriti, la metafisica. E in questa ricerca di Infinito si ritrovano anche le componenti culturali e spirituali del banchetto funebre greco (agape) e quello latino (silicernium), i progenitori del consolo. L’abbondante e ricco banchetto funebre offerto dalla famiglia e dagli amici del morto serve a riportare il “fuoco” lì dove, a causa del lutto, non si può accendere la fonte di energia per cucinare. La morte di un congiunto, infatti, comportava lo spegnimento del focolare per un minimo di tre fino a un massimo di nove giorni. Il consolo, di conseguenza, si porta per colazione, pranzo e cena fino a un massimo di nove giorni. Il ritorno alla normalità, l’uscita dal lutto, si simbolizza con la cena novendialis ovvero del nono giorno: il 9 è la fine, poi si ricomincia da 1 per andare avanti a contare. Il pasto del nono giorno è quello di confine: la morte è sulla soglia e cede il passo alla vita.

Pane dei morti

Il consolo sempre e in ogni luogo

Sicilia, Calabria, Basilicata, Abruzzo e via a salire per lo stivale intero, ciascuno con i propri cibi della consolazione: fave o ceci (legumi in generale), minestre, pasta, carne, brodo, vino e soprattutto pane.

Il solare grano e i suoi chicchi che, morti nel ventre della terra, risorgono alti e fieri sotto la nostra stella, sono il simbolo di resurrezione più importante:

«…le sorgenti della vita non possono estinguersi, debbono anzi riprendere l’iniziativa – nella continuità biologica – nei confronti dell’annullamento, nell’eterno giuoco di vita-morte-rinascita. I ceci si inseriscono nel rapporto vivi/morti, chicchi simbolici della vita che continua oltre la morte… La stessa funzione aveva il pane funebre… Il pane assumeva le forme tonde, allo stesso modo della piada e della tigella sulla quale venivano stilizzati quei simboli solari che nel mondo precristiano non erano rari anche sui coperchi delle urne cinerarie, emblemi della fecondità e della rigenerazione» (“La terra e la luna” di Piero Camporesi, pagg. 19-20, 1995, Garzanti Editore)

Pan dei morti, Ossi di morto da intingere nel vino in Veneto e Toscana, Fave dei morti con pasta di mandorle in Veneto, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Marche fino alle colorate Calaveras (teschi) di zucchero in Messico sono le eredità del pasto funebre (e del consolo) che si consumano, ogni anno, il giorno dei morti e che i progenitori latini chiamavano parentalia. «Alcune donne vanno versando da una bottiglietta di gazzosa un po’ di vino rosso su una grossa fetta di pane scuro, che depongono poi presso la croce sul fascio dei fiori campestri», è la testimonianza dell’antropologo Ernesto De Martino quando ha rinvenuto l’ultimo avanzo della pagana offerta di cibo ai morti da parte delle donne di Roccanova in Lucania (“Morte e pianto rituale nel mondo antico”, E. De Martino, p. 60, Boringhieri, Torino 1958). Pane e vino per garantire che mortali e immortali siedano insieme alla stessa tavola: “prendete e mangiate” in memoria di chi non c’è più ma aspetta Resurrezione.

 

Bibliografia essenziale:

“Il cibo e il sacro” a cura di Cipriani- Lombardi Satriani, Armando Editore, Roma 2013

“Vita tradizionale in Basilicata” di Giovanni Bronzini, Congedo Editore, Galatina 1987

“Il pasto sacro” di Mario Bacchiega, Cidema Edizioni, Padova, 1971

 

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