La Pasta

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Giornata Mondiale della Pasta

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Oggi il Calendario del Cibo Italiano celebra la Giornata Mondiale della pasta, tema a cui sono stati dedicati innumerevoli studi. Fra questi, il più recente è un’opera che è già diventata un classico della letteratura gastronomica, per la completezza e la profondità dei contenuti: è il testo “La pasta – storia e cultura di un cibo universale” di S. Serventi e F. Sabban. Visto che il Calendario serve anche a divulgare i principali strumenti di approfondimento, in quanto ambasciatrice affido ad un estratto di questo testo il compito di presentare una delle indiscusse glorie della nostra gastronomia.

“Tu nei piatti superbi e negli umili
Sei caro a ogni gente, ad ogni etate:
per  te più delicate, e più gentil
son le mense regali, e le private
gran delizia del mondo; a te simili
cibi non son nel verno,  o nell’estate, a te che per parere ricco e polito
porti sempre il formaggio sul vestito”
F. De Lemente, secolo XVII

“Tutto ebbe inizio con il grano. Le caratteristiche peculiari dei vari tipi di grano sono il risultato di una evoluzione in larga parte voluta dall’uomo, che ha provveduto alla domesticazione delle specie selvatiche, alla loro selezione e al loro incrocio. Lo sviluppo dell’agricoltura umana si ebbe intorno al 10.000 a.C., dando origine alla domesticazione di cereali come l’orzo e il grano, e di leguminose come piselli, ceci, lenticchie e fave.

Il grano “Triticum” è un cereale di antica coltura, sviluppato nella zona del Mediterraneo, Mar Nero e Mar  Caspio. Quest’area, meglio conosciuta come “mezza luna” , è la culla delle attuali graminacee. In questo senso possiamo affermare che il “Triticum”, rappresentato dalle sue diverse specie e varietà coltivate, costituisce il “cereale della civilizzazione”. In un primo tempo le loro spighe furono arrostite e i loro chicchi mangiati senz’altra preparazione, ma molto presto essi furono trasformati in farine più o meno imperfette impastate a formare gallette e pani grossolani cotti su piastre calde, cibi di cui si ritrovano resti che datano dal 4000 al 3000 a.C. Questi primi preparati costituiscono l’origine di quello che possiamo definire impasto. Così, in principio, le due modalità di impasto furono quelle di acqua e farina, cotto al calore secco, e la polentina, costituita dalla cottura del chicco di grano intero o frantumato in un liquido bollente.

A partire dal V secolo a.C. l’importanza progressiva acquisita dai grani nudi, più facile da lavorare e dunque impiegati quasi esclusivamente per la fabbricazione delle farine adatte agli impasti, marginalizza i grani “vestiti”, ossia quei tipi di grano il cui frutto è ricoperto da glume aderenti che rendono i chicchi impossibili da trebbiare al momento del raccolto, e che pertanto utilizzati solo per la preparazione di  polente. Tanto più che proprio in questo periodo, cominciano a diffondersi in tutto il bacino del Mediterraneo le macine rotative, strumento efficace e specifico per la molitura dei grani nudi.

Nel ridotto numero delle specie di grano che acquisiscono importanza, due sono particolarmente considerate : Il Triticumaestivum, la Siligo dei romani, il nostro grano tenero dal quale si estrae la farina perfetta per panificazione, e il Triticumdurum, chiamato Triticum dagli stessi Romani, il nostro grano duro, materia prima dell’industria pastiera moderna, del quale all’epoca si apprezzava la semola e che nel I secolo della nostra era veniva importato in Italia dall’Africa del Nord e dalla Sicilia. Come testimonia il trattato di Apicio, la farina di grano tenero e la semola di grano duro venivano considerate in modo perfettamente distinto e utilizzate per preparazioni specifiche che permettevano di sfruttare al meglio le loro rispettive qualità. Sembrerebbe però, che nonostante le risorse disponibili e la conoscenza delle lavorazioni dei diversi tipi di farine, all’epoca non esistesse la “pasta” così come da noi conosciuta : la minuziosa analisi delle ricette di Apicio non ne rivela alcuna traccia.

Malgrado la semplicità della sua composizione e della sua fabbricazione, oggi sappiamo che la “pasta” non è esistita da sempre. E a differenza del pane, di cui sono stati rinvenuti i primi esemplari negli scavi neolitici, la pasta non ha lasciato traccia della sua origine, che è pertanto ancora discussa. La singolare latitanza della storia antica delle preparazioni cerealicole in Europa ha contribuito alla diffusione di numerose leggende tramandate dalla voce popolare, ma ha anche dato luogo a talune ipotesi più fondate da parte di un certo numero di ricercatori interessati alla questione. In realtà, Greci e Romani non conoscevano questo cibo oggi indispensabile, e di qui si è dedotto che provenisse da altre regioni remote (dalla Cina, secondo alcuni, o dal Medio Oriente,  secondo altri ) e che sarebbe stato introdotto presso di noi dagli Arabi, che lo avrebbero inventato sotto la spinta dell’urgenza, dovuta al loro peregrinare nomade, di rifornirsi di alimenti di facile conservazione. In effetti la questione è più complessa, e non può essere spiegata con il semplice trasferimento di cose o persone.

Visto che si devono attendere i primi testi di cucina italiani, sul finire del Medioevo, per trovare espliciti riferimenti alla pasta alimentare, la questione della sua origine in Italia ha naturalmente fatto scorrere fiumi d’inchiostro. Sulle orme di numerosi predecessori, come Giuseppe Prezzolini che già negli anni Cinquanta del Novecento forniva le prove della totale estraneità di Marco Polo all’avvento della pasta in Italia, possiamo dire che molto prima del ritorno del grande viaggiatore, nel 1296, il Mediterraneo era sede di un fruttuoso commercio di “obra de pasta, come veniva chiamata a Cagliari la pasta alimentare: ciò significa che la pasta faceva effettivamente parte già da molto tempo della dieta alimentare di alcuni popoli di quest’area. Tuttavia, solo a partire dai secoli XIV e XV assistiamo al comparire di un certo numero di nomi di paste alimentari, 17 secondo un recente inventario, alcuni dei quali ci sono ancora oggi familiari. Nei testi medievali si trovano ad esempio testi su “lasagne”  e “tria”, i più diffusi tipi di pasta alimentare dell’epoca.

 Il termine laganum, per designare una sottile sfoglia di pasta, compare in numerosi testi latini antichi. Ma se la parentela tra laganum e lasagna può apparire evidente, questi termini evocano delle realtà che non hanno in comune che gli ingredienti di base, e probabilmente la forma, con le nostre lasagne. Ciò ci è confermato da Ateneo, vissuto nel secondo secolo della nostra era, che nel suo Convivio dei sapienti  fornisce una ricetta di lagana preparata con sottili sfoglie confezionate con una pasta a base di farina di grano e di succo di lattuga schiacciata, aromatizzate con spezie e fritte in olio abbondante. Per via del metodo di cottura cui viene sottoposto, il laganum  romano così descritto non corrisponde alla nostra definizione di pasta, anche se il fatto che si tratti di un impasto lavorato a mano e tirato in sfoglia sottile lo avvicina comunque alla nostra lasagna. Anche in una ricetta di epoca successiva, tratta da un testo di arte culinaria che risale all’inizio del V secolo attribuito ad Apicio, compare un piatto chiamato lagana, costituito da una serie di sfoglie di pasta intercalate da farciture di carne e cotto al forno, ma anch’esso, benché ricordi con tutta evidenza quelle che oggi conosciamo come lasagne al forno, a ben vedere è molto più simile ad una forma primitiva di pasticcio di carne. Ecco che la sfoglia di pasta, considerata come risultato transitorio di un procedimento complesso, è stata la base per la preparazione di numerosi nuovi formati.

La comparsa tardiva di formati di pasta filiforme come i vermicelli nelle ricette italiane, rispetto all’utilizzazione antica della sfoglia di pasta-lasagna, ha portato diversi studiosi dell’alimentazione ad avanzare l’ipotesi che quel genere di pasta non fosse realmente autoctono all’interno del bacino del Mediterraneo centrale, ma che fosse invece di provenienza araba.

Questi formati infatti, a differenza delle lasagne destinate ad un consumo immediato, venivano sottoposti ad essicazione ed erano quindi adatti ad un consumo prorogabile nel tempo, trasportabili nei lunghi viaggi e commercializzabili, esattamente come i preparati noti come “itrium” già presenti nella parte orientale dell’impero Romano. Si suppone dunque che la tecnica di preparazione di questa pasta secca sia di origine araba e sia diffusa fino in Sicilia, centro di un estesissima rete commerciale e luogo importante della cultura ebraica del Medioevo, dove si era stabilita una tradizione di scambio culturale con la Palestina, la Provenza e la Renania. L’incontro tra la sfoglia di pasta fresca e il filo di pasta, molto spesso secca, ha portato in Italia alla lenta elaborazione di una tradizione che si trasformerà in una ricchezza senza eguali.

Non si deve certo trascurare l’importanza delle “pastine”, o “pasta per brodo”, che sono le dirette discendenti dei vermicelli e che si facevano cuocere, appunto, nel brodo o nel latte di mandorla per ottenere una pappa alla moda iberica; ma in realtà l’Italia si caratterizza per quel tipo di pasta che oggi chiamiamo “pastasciutta”.

La primissima forma di produzione intensiva di pasta a livello commerciale si sviluppò in Sicilia, da sempre considerata un vero e proprio granaio, la quale durante il Medioevo, insieme alla Puglia, fu una delle maggiori zone produttrici  di grano duro del mondo mediterraneo.

L’importanza del commercio della pasta secca nel Medioevo è indubbia e si è potuto constatare che la sua diffusione non si limita al solo territorio italiano. Di fianco al commercio a distanza della pasta secca, troviamo le tracce di un commercio locale al dettaglio alimentare, in tutto il paese, da laboratori artigianali. Parallelamente alla produzione concentrata della pasta secca, presente essenzialmente sulle isole, nel mezzogiorno della penisola e, probabilmente, lungo la costa ligure, esiste infatti una rete capillare di piccoli fabbricanti di pasta fresca, o semi-secca, che rispondono alla domanda locale.

Ma i fabbricanti della penisola che alimentano il commercio locale non lavorano tutti secondo lo stesso modello e, tendenzialmente, non producono formati di pasta identici. Nel XVI secolo si costituisce a Roma una potente corporazione di “vermicellari”, la cui attività è a metà strada tra quella dei pastai, specializzati nella pasta a lunga conservazione, e quella dei lasagnari di quartiere, come quelli di Firenze. Ma la gamma dei prodotti presso i piccoli artigiani varia da una città all’altra, secondo le tradizioni locali, tradizioni che ritroviamo ancora oggi nei formati differenti da regione a regione: basti pensare alle orecchiette pugliesi, ai tortelli emiliani, i bigoli del Veneto, i pici toscani, le linguine della Liguria, gli scialatielli della Campania. Formati differenti che richiedono condimenti differenti, anche’essi legati alla storia del territorio e ad una cultura popolare di cui la nostra penisola è ricchissima.

Mentre nei Paesi asiatici è usanza consumare una pasta di grano tenero, preparata in brodo con verdure fresche, carne o pesce, il consumo della pastasciutta preparata con il grano duro, prodotta industrialmente e condita “all’italiana” con sughi ristretti si è diffuso in tutta Europa, tanto da identificare questo cibo così prezioso come simbolo della cultura gastronomica del nostro Paese.”

Fonti:
“La pasta – storia e cultura di un cibo universale” di S.Serventi e F.Sabban
Partecipano come contributors:
Serena Bringheli, Spaghetto quadrato al pesto di sedano e noci
Marianna Bonello, Paccheri con pesto di foglie di ravanello
Tiziana Bontempi, Vermicelli verdi in cialda nera
Daniela Ceravolo, Fettuccine con pesce spada, fiori di zucca e bottarga di tonno
Cristina Tiddia, Pasta con la ricotta
Tamara Cinciripini, 25 OTTOBRE GN MONDIALE DELLA PASTA

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