Al Dente! La pasta spiegata bene

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La pasta spiegata bene dalle lontane origini, al riconoscimento e al significato culturale.

La rivoluzione gastronomica per eccellenza è quella che accadde in pieno Neolitico, undicimila anni fa, quanto i Sapiens, da raccoglitori e cacciatori qual’erano intuirono che il plein-air poteva essere uno stile di vita gradevole in un campeggio a Jesolo ma che a lungo andare avrebbe comportato qualche scomodità.

La nascita delle prima civiltà stanziali è strettamente legata alla coltivazione di cereali nei villaggi lungo il fiume Giordano in cui per la prima volta l’uomo si accorse che, durante la stagione calda, piccole piante spontanee producevano spighette contenenti semi commestibili che, lasciati sul terreno, davano origine a nuove piante identiche e fornivano nuove spighe da usare per l’alimentazione quotidiana.

La novità è dirompente e il cambiamento inarrestabile parte dal Medio Oriente: i Sapiens iniziano ad insediarsi stabilmente sui territori dando vita alle prime aggregazioni urbane e con l’agricoltura inizia anche un nuovo corso dello sviluppo delle tecniche. I campi devono essere preparati adeguatamente e la coltivazione richiede strumenti specifici (falci, zappe, asce); occorrono strade e canali d’irrigazione; fioriscono attività legate alla trasformazione della materia prima (mulini, macine e forni); i villaggi si organizzano in funzione delle attività nascenti.

Il ruolo dei cereali fu talmente importante che anche in ambito religioso crebbero il rilievo e l’influenza delle divinità legate alla coltivazione di questi prodotti. In Grecia, per esempio si adorava Demetra, la dea del frumento e delle messi, mentre a Roma la dea della terra e della fertilità era Cerere (dal nome latino della dea, Ceres, deriva anche il termine “cereali”), alla quale, secondo i Romani, si deve anche l’invenzione di diverse tecniche agricole come l’aratura e l’uso delle macine.

E cambiò il menù.

Quando è nata la pasta

L’uomo quindi passò dalla raccolta alla coltivazione delle piante e alla conservazione dei semi. Inizialmente i semi venivano consumati crudi, interi o frantumati, i semi dei cereali si dimostrarono rapidamente molto più adatti di qualsiasi altro frutto ad essere conservati e cucinati.

La tostatura sul fuoco e il consumo sotto forma di minestre permise di ottenere composti più digeribili e la macinazione fu il primo passo verso la panificazione e l’importanza del frumento sugli altri cereali è dovuta al contenuto in glutine che permette la preparazione di pane e pasta, irrealizzabili con il solo utilizzo di altri cereali.

Ma a differenza del pane, che ha lasciato addirittura testimonianze tridimensionali di sé rinvenute sia all’interno delle tombe egizie che negli scavi di Pompei, la pasta è più latitante circa le sue origini, che sono pertanto ancora discusse. All’interno del Museo Egizio, infatti, nelle collezioni acquisite da Ernesto Schiapparelli, è possibile osservare un pane tondo datato 1425–1353 a.C. e risalente al regno di Amenhotep II mentre le prime testimonianze iconografiche della pasta sono raccontate nei Tacuinum Sanitatis, letteralmente un trattato medico redatto a Baghdad dal medico e letterato Abū al-Ḥasan al-Mukhtar Ibn Buṭlān nell’XI secolo, ispirato agli scritti di Ippocrate prima (400 a.C.) e Galeno poi (200 d.C.). Nel testo la pasta è definita itriyah che in arabo significa “pasta tagliata a strisce”.

Il manoscritto, che venne replicato poi in tutta Europa partendo dalla Scuola Salernitana fino alle corti più prestigiose, è corredato con miniature che raccontano l’allora quotidianità degli esponenti delle diverse classi sociali. Scene di caccia e di semina o raccolta, scene di vendita che comprendono cereali, legumi, preparazioni farmaceutiche, olii, dolci, sostanze aromatiche, sciroppi, candele, vestiti e pasta. Scene in cui viene raccontata la trasformazione e il consumo del prodotto: miniature didattiche il cui scopo è quello di illustrare un soggetto in modo comprensibile e istruttivo. Come in quella in cui due donne, raccontate all’interno della cucina di un’abitazione, sono intente a tirare un impasto sopra un tavolo e stendere dei fili di pasta su di un rudimentale essiccatoio.

Dove è nata la pasta

Non fu Marco Polo quindi, il celebre mercante ed esploratore, ad intrecciare fili di mian o fen con gli Kuài Ziper ed aprire il primo Noodle’s bar a Venezia ma i contadini siciliani che avevano avuto come maestri gli invasori arabi. Le regole dell’economia, del resto, ci insegnano che i luoghi di trasformazione nascono vicini a quelli di produzione e la Sicilia, oltre alla Puglia, primeggiavano in ciò, vuoi per il clima, vuoi per i latifondi (dei servi della gleba, o manodopera a basso costo, parleremo un’altra volta).

Il Sud dello Stivale, quindi, come luogo d’elezione non solo per la coltivazione dei cereali e la trasformazione ma anche per la “diversificazione” dei formati di pasta che iniziano a raccontare una geolocalizzazione molto spinta che ha portato agli oltre trecento formati di pasta che si producono nel nostro Paese: secca e fresca, con o senza foro e ripiena.

Formati differenti da regione a regione che richiedono condimenti differenti, legati anch’essi alla storia del territorio e ad un’identità gastronomica che rende unica l’Italia. Così che le tagliatelle bolognesi non possono essere pensate senza il ragù, i bigoli veneti con la salsa di alici che strizza l’occhio alla cucina kosher, le trenette liguri abbracciate al pesto e le orecchiette che diventano un piatto unico con le cime di rapa.

Come è nata la pasta

Fu Mastro Martino, con il suo ricettario Libro de arte coquinaria (Como, 1450) a riportare tecnicamente il termine maccaroni intendendo non solo le lasagne delle quali se ne faceva uso da molto tempo, differenziando appunto ne il “maccarone in altro modo”, “maccaroni chi fir”(quelli siciliani) e “tagliatelle che se fatti seccare al sole durano fino a tre anni.”

Nel 1572 Bartolomeo Scappi pubblica a Venezia un trattato di cucina in sei volumi che diventa un vero e proprio best seller gastronomico, da far invidia a Benedetta Rossi: “Opera”. Nomen, omen ed effettivamente si tratta del più grande trattato gastronomico del tempo che includeva oltre mille ricette, analisi e uso degli strumenti di cucina e tutto ciò che doveva conoscere un cuoco rinascimentale di alto livello.

Un trattato modernissimo, stampato regolarmente fino al 1643, che includeva ricette di pasta ripiena, frolla e sfoglia, torte e pizze e anche la ricetta “per far minestra di tagliatelli”, al capitolo CLXXIII. La lettura del testo è affascinante e ci restituisce un procedimento che nello svolgimento svela gli ingredienti e la tecnica: “Si impastino due libbre di farina fior con tre uova e acqua, si mescoli bene sopra una tavola per lo spazio di un quarto d’ora, da poi si stenda sottilmente con un bastone (matterello, ndr).” Le istruzioni continuano citando lo sperone, ovvero l’antesignano della rotella tagliapasta ed un coltello sottile, utilizzati entrambi per ottenere delle tagliatelle che poi andranno aperte e lasciate asciugare, aiutandosi con del “farinaccio” ovvero la semola.

Vermicelier è il termine usato nell’Encyclopedie di Direrot e D’Alambert (Ginevra, 1779) per spiegare con metodo scientifico la produzione di vermicelli. Il capitolo dedicato riporta infatti tavole che illustrano moderni torchi manuali e diverse trafile, senza entrare nel merito della cottura e della ricettazione. Si specifica tra l’altro che esistono due tipi di torchio, a vite verticale per le paste lunghe e a vite orizzontale per le paste corte.

Il termine torchio, ad onor di precisione, era già stato usato quasi due secoli prima sia da Cristoforo Messisbugo che da Bartolomeo Scappi ma è solo con Diderot e D’Alambert che si esce dal cerchio ristretto delle corporazioni regionali italiane per entrare nel merito della produzione “industriale”.

E infine la consacrazione: la pasta

Fu il grande gastronomo e politico Anthelme Brillat-Savarin nel suo La fisiologia del gusto o meditazioni di gastronomia trascendente (Parigi,1825) a sottolineare che “… per l’Italia i maccheroni, il parmigiano, la mortadella e i gelati sono da porre sullo stesso piano delle specialità gastronomiche dei maggiori Paesi”. Anticipando l’intuizione dell’industriale Giovanni Battista Buitoni che nel 1827, A Borgo Sansepolcro (AR), aprì il pastificio meccanico più antico d’Italia.

Intuizione che qualche decennio più tardi venne così descritta dallo scrittore Cesare Marchi « … quando scocca l’ora del pranzo, seduti davanti a un piatto di spaghetti, gli abitanti della Penisola si riconoscono italiani… Neanche il servizio militare, neanche il suffragio universale (non parliamo del dovere fiscale) esercitano un uguale potere unificante. L’unità d’Italia, sognata dai padri del Risorgimento, oggi si chiama pastasciutta » (Quando siamo a tavola, Rizzoli, 1990).

Ma se fino ad allora i maccheroni e gli gnocchi venivano serviti con condimenti dolci (in quanto lo zucchero, fino all’Illuminismo, venne considerato una spezia il cui utilizzo era fondamentale nella Teoria degli Umori) o con burro e formaggio è solo nel 1839 che per la prima volta appare la ricetta divenuta identitaria per la nostra cultura gastronomica ovvero gli spaghetti con il pomodoro. Don Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, infatti, nella seconda edizione della sua Cucina Teorico Pratica, codifica per la prima volta “i vermicielli co’ le pommodore”, precisando che la salsa deve essere preparata con moltissimi frutti, eliminando “chelli semi e chella acquiccia”.

La pasta e le sue “parole”

“Gusto!” è stata la prima mostra all’M9 di Mestre, Museo del Novecento a raccontare come l’evoluzione gastronomica non può non essere considerata soprattutto culturale ed ha analizzato alcune parole che raccontano non solo la pasta ma cosa comporta, simbolicamente, consumarla. E siccome le parole sono sempre importanti eccone tre importantissime per raccontare appunto la pasta.

“Butta la pasta!” Se avessimo senso del marketing, sarebbe uno slogan più dirompente di “Yes, we can”. Molto di più che un grido di battaglia è un modo di dire “mangiamo insieme, sto arrivando.”

“Primo”. Inteso come primo piatto. È il simbolo del pasto italiano e quindi si inizia con la pasta. “Tutto il resto può aspettare.”

“Al dente”. Un piatto di pasta scotta è un insulto al nostro passaporto. “O al dente o niente.”

L’origine della pasta: la cultura che si mangia

Anche un piatto di spaghetti, quindi (soprattutto se fatto bene), è in grado di “fare cultura”: Massimo Montanari nel suo Il mito delle origini (Laterza 2019) analizza che “preparando un piatto di spaghetti al pomodoro (un piatto considerato segno dell’identità italiana) sintetizziamo il felice incontro tra una tecnologia produttiva messa a punto nella Sicilia araba del Medioevo e un prodotto americano importato in Europa dai conquistatori spagnoli.”

Concludo con una riflessione: ricercare le origini della nostra identità (ciò che siamo) non ci porta quasi mai a ritrovare noi stessi (ciò che eravamo) bensì altre culture, altri popoli, altre tradizioni, dal cui incontro e dalla cui mescolanza si è prodotto ciò che siamo diventati.

4 commenti

  1. Grazie Annamaria per questo racconto molto interessante sulla nascita della pasta. Un giorno dovremmo organizzare una gita a Parma, al museo della pasta, in cui è conservato lo spaghetto più antico.

  2. Bellissimo Anna Maria, quanto ci sono mancate le pillole di storia gastronomica. Nessuno se la sarà mai chiesto ma d’altronde nessuno aveva mai sentito la necessità neppure dell’i-phone!

  3. Ti ringrazio per questo articolo, Anna Maria. Preciso e denso di riferimenti culturali, ma scorrevole e divertente. Ci racconta la storia della pasta, e ci mette anche appetito:
    Butta la pasta!

  4. Bellissimo ed è proprio vero, il nostro piatto identitario è la mescolanza di prodotti di altri popoli!

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