Sant’Antonio Abate a Trivigno tra fuochi e “abbuffate maialesche”

Sant'Antuono Trivigno
Il falò di Sant’Antuono credit Proloco Trivigno

Ogni anno a Trivigno, nel cuore dell’inverno e dell’Appennino lucano, nella notte dedicata a Sant’Antonio Abate, in Basilicata noto come Sant’Antuono, salgono al cielo infinite scintille di fuoco e bruciano in terra maestose cataste di legna. Sembra un’ancestrale pira sacrificale, su cui “arde” la più antica offerta dell’uomo, il simbolo dell’inverno: il sacro porco. Anche quest’anno nel piccolo borgo in provincia di Potenza si darà il via alla luminosa “notte dei falò”, posticipata al 21 gennaio, anziché nel giorno del santo (il 17 gennaio), ma sempre nella fase astronomica in cui si vede crescere il sole in alto così come divampa la luce in basso.

Lo stretto legame tra Sant’Antuono, il fuoco e il maiale

A Trivigno si aspetta la notte di Sant’Antuono come un tempo si aspettavano i Saturnalia per dare libero sfogo agli impulsi vitali più reconditi, per dare una spinta propulsiva alla “fertilità” del creato e lanciare un messaggio beneaugurante al risveglio della Natura e dei campi.

Il 17 gennaio e il santo anacoreta, sembra un ossimoro ma non lo è affatto, aprono i giorni del Carnevale, delle abbuffate e della libertà dai ruoli e dalle leggi stabilite: il servo diventa padrone e nel “testamento di Carnevale” così come nel “testamento del porco” non sono citati i benestanti che mangiano carne tutti i giorni. La festa è per coloro che hanno la pancia vuota tutto l’anno ma da Sant’Antuono in poi tutto è capovolto, tutto è “maschera” perché l’inversione dei ruoli porta ricchezza ai campi e inaugura il nuovo ciclo solare.

E’ il sole la divinità a cui veniva sacrificato il maiale, simbolo solare ed elemento fondamentale per il sostentamento alimentare dell’intero anno. Il maiale, animale fecondo e apportatore di prosperità proprio come il fuoco fu per la vita e l’evoluzione dell’umanità. Sant’Antuono, dunque, il Prometeo del sincretismo cristiano che “illumina” le pagane tradizioni antecedenti. Quando le reliquie del fondatore del monachesimo e dell’ascetismo, taumaturgo e protettore degli animali, nato sulle rive del Nilo e vissuto nel deserto, furono trasferite da Costantinopoli in Francia e si costituì l’Ordine degli ospitalieri di Sant’Antonio (1095), l’Europa era flagellata dal male del “fuoco sacro”, chiamato anche siderazione per il forte bruciore che comportava al corpo e che più tardi fu individuato come Herpes Zoster. In quel tempo, gli Antoniani erano gli unici a curare questa malattia epidermica e lo facevano utilizzando antichissimi metodi curativi, tra cui il farmaco più potente era costituito proprio dal grasso del maiale. Da questo momento in poi il mito di Sant’Antuono si intreccia con tutti i simboli e le tradizioni intorno al maiale e al fuoco. Gli Antoniani avevano la facoltà di allevare e far razzolare i maiali nelle strade e i loro sacri animali erano distinti dagli altri da un campanellino al collo, gli stessi che venivano benedetti (e ancora accade) dal parroco il 17 gennaio e poi offerti l’anno successivo ai più poveri, naturalmente già rielaborati nelle mille forme gastronomiche che la loro carne permette: pancetta, capocollo, ventresca, prosciutto…e poi salame.

E sull’etimologia di questo derivato del maiale la Basilicata ha qualcosa in più da dire: il termine deriva sicuramente da “sale” e lo si trova per la prima volta in un documento del 1436, quando un capitano di ventura richiede tale insaccato tra le altre forme di pagamento. Ma prima di questa data, il salame si produceva ma si chiamava “lucanica” divenuto poi luganiga. Lucanica deriva da Lucania, come affermato da Varrone, confermato da Garzoni nel Rinascimento, e ormai condiviso da tutti i linguisti moderni.

Questo tipo di insaccato della carne di maiale veniva chiamato dai soldati romani “lucanica” proprio perché avevano imparato a farla dai Lucani.

La notte dei falò di Sant’Antonio Abate a Trivigno, Basilicata

La benedizione degli animali

La benedizione degli animali. Credit ProLoco Trivigno

 

La festa dedicata al santo protettore degli animali e del fuoco a Trivigno comincia nel tardo pomeriggio, quando bambini e volontari vanno per le strade, vestiti coi costumi tradizionali del piccolo borgo montano, bussando alle porte dei tanti che hanno il camino acceso e chiedendo dei ceppi di legna da offrire per il “fuoco di Sant’Antuono”. Assieme a loro sfilano le maschere antropologiche e zoomorfe di Tricarico, tra musica e canti, per richiamare l’attenzione e ricordare che il santo dà il via al Carnevale e che alle Maschere è data facoltà di questuare lucanica e vino ad ogni porta. La tradizione, infatti, vuole che prima del 17 gennaio (per “fede” e per clima”) il salame lucano sia già appeso ad asciugare, l’ Aglianico lucano sia sempre fresco in cantina e il “buonaugurio” della maschera debba essere omaggiato, pena una “malannata” in casa e nei campi.
Dopo aver celebrato la Messa, è compito dell’officiante cristiano benedire le cataste di legna allestite nelle piazze principali e davanti alla Cappella di Sant’Antonio, mentre spetta al sindaco col tricolore accendere i falò. A fuoco acceso, tutti gli animali del paese e anche quelli portati dai pastori dei borghi vicini fanno tre giri intorno alla chiesetta dedicata al santo e poi vengono benedetti dal parroco di Trivigno. A fuochi accesi, tra buoi, asinelli e altri protetti dell’anacoreta, si può dare il via alle degustazioni e all’apertura dei ristori gastronomici: caciocavalli, provoloni, strascinati con pezzente, porchetta, cinghiale, zuppa di legumi, Aglianico del Vulture, prosciutti e lucanica… insomma tutto è pronto per dare inizio alle abbuffate di Carnevale da oggi fino al martedì grasso.
Da qualche anno, i trivignesi hanno voluto accoppiare alla bellezza naturale del fuoco anche lo spettacolo dell’acqua: i due elementi danzano e si completano per meglio generare prosperità e gioia nel piccolo borgo lucano e nei cuori di tutti i visitatori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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