I Pizzoccheri di Teglio, l’Accademia del Pizzocchero e il territorio valtellinese
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Il viaggio verso Teglio cominciava sempre all’alba, un occhio ai bagagli da caricare e uno all’orologio per calcolare i tempi giusti per prendere la piccolissima e amarissima pastiglia contro il mal d’auto. Sì, perché una volta arrivati a Lecco, il viaggio era lunghissimo e tortuoso: si percorreva la statale che costeggiava tutto il lago, e se per caso si incontrava il tir che andava a Cepina a caricare l’acqua, diventava ancora più lungo perché non si poteva mai sorpassare! E una volta arrivati in cima al lago, dove finiva, nel paese di Colico, si faceva la prima tappa. Si scendeva dalla Cinquecento color sabbia, si entrava al bar sulla destra e mangiavamo tutti un panino. “Non prendere cose liquide” mi diceva la mamma. E allora mi ricordo che mi trovavo tra le mani un grandissimo e profumatissimo panino col salame. Questo era come una sorta di premio e io non vedevo l’ora di arrivare alla fine del lago per potermelo gustare! E poi di nuovo in macchina, passando per Morbegno, poi Sondrio. Io leggevo i nomi dei vini che differenziavano i terrazzamenti di uve. E all’ultimo cartello capivo che quasi c’eravamo; su per la Strada Panoramica dei Castelli o quella di San Giacomo e poi eccoci arrivati in paese: la chiesa, le case in sasso con i gerani alle finestre, l’aria frizzante e pulita e il sole caldo. Si, la vacanza era proprio iniziata…”
La Valtellina, lunga 120km e larga 66, è una fantastica valle percorsa dal fiume Adda che scendendo dalla Valle di Cancano, confluisce nel Lago di Como. Lungo tutto il suo percorso possiamo ammirare i lunghi terrazzamenti che scendono a valle, dove vengono coltivate le uve Nebbiolo, localmente dette chiavennasche, utilizzate per produrre dell’ottimo vino.
Toponomastica e cenni storici
Il nome deriva sicuramente da quello di Teglio (in latino Tellius), un antico centro abitato situato nella parte centrale della vallata, a 900 mt di altitudine, sul versante retico ma affacciato sulle alpi Orobiche dove dalla pineta, attraversata da cunicoli che la collegavano nell’antichità al Palazzo Besta, si erge la “Torre de li beli miri”, simbolo di Teglio, che è tutto ciò che rimane di un castello medievale ricostruito sulle rovine di uno precedente di fondazione romana, e da cui si gode di un fantastico panorama su tutta la valle.
Teglio ha dato il nome all’intera valle (Vallis Tellina in latino), e in età romana divenne “Castrum” cioè fortificazione, dove alloggiavano le legioni romane.
Alcuni riconducono il nome Teglio all’albero del Tiglio (Tilia in latino) e quindi Valtellina a Valle dei Tigli.
Secondo altri, il nome deriverebbe invece da Vallis Turrena, ossia “Valle dei Tirreni” oppure alle numerose torri che un tempo caratterizzavano la valle.
Come si può notare sono tante le correnti di pensiero e le ipotesi circa l’origine del nome. Quello che di sicuro si sa è che la vallata fu colonizzata, fin da epoche antichissime, da popolazioni di origini celtiche, liguri ed etrusche.Virgilio, il comasco Plinio il giovane e Marziale narrano di come, in età pre-romana, i primi insediamenti ligustici ed etruschi avevano importato in Valtellina la vite dalle zone delle Cinque Terre e dalla Lunigiana.
I periodi storici si susseguono: nel medioevo passa dalla dominazione romana a quella longobarda, poi gli avvenimenti bellici proseguono con la seconda guerra di indipendenza e la prima guerra mondiale, quando fu costruita una linea difensiva italiana per impedire un eventuale sfondamento del Fronte attraverso la neutrale Svizzera: la Linea Cadorna.
Ancora oggi sono visibili mulattiere, trincee e i bivacchi utilizzati dagli alpini durante la secondaguerra mondiale; arrivando ai giorni nostri, ricordiamo che la Valtellina è stata coinvolta nel 1987 nella tragica frana di fango che ha sepolto il paese di Sant’Antonio Morignone, cancellandolo dalle cartine geografiche e cambiando il territorio circostante.
Tutta la valle viene percorsa da un grande numero di vacanzieri per tutto il periodo dell’anno: o per divertirsi sciando sulle numerose piste, o per percorrere sentieri che portano fino ai rifugi, o semplicemente per una gita enogastronomica alla ricerca degli antichi e genuini sapori che ancora vengono apprezzati e difesi.
Ovviamente la viabilità è stata migliorata, infatti oltre al lungolago si può percorrere la più scorrevole strada con gallerie che tagliano di parecchio le strade tortuose di una volta.
Specialià
Quando si parla di Valtellina, oltre a citare le bellezze paesaggistiche, occorre dar conto di quelli che sono i prodotti tipici della sua tradizione enogastronomica che sono davvero numerosi: polenta taragna, p olenta Cròpa, pizzoccheri, sciatt, taroz, bisciola, chiscioi, bresaola della Valtellina, slinzega, bitto, casera, vini rossi DOC e DOCG. Fra questi ultimi, i più noti sono l’Inferno, il Grumello, il Sassella, il Valgella, il Maroggia e lo Sforzato di Valtellina (ottenuto con uva passita). Sono assenti i bianchi e molto rari i vini rosati; poi c’è il famoso amaro Braulio. Chiunque si fosse trovato anche solo di passaggio a percorrere la valle e a fermarsi in un locale tipico, avrà sicuramente assaggiato uno o più di questi prodotti.
Pizzoccheri e grano saraceno
Il piatto tipico che viene subito in mente quando si parla di Valtellina sono i tipici pizzoccheri. Nello specifico, parliamo di quelli di Teglio. Si potrebbe pensare: ma se è un piatto della tradizione valtellinese, perché specificarne così precisamente il luogo di provenienza? Perché come per tutte le ricette tramandate, in ogni famiglia c’è un modo particolare di cucinarli, pur restando attinenti alle tradizioni. Così può capitare che il piatto di pizzoccheri, anziché contenere la verza e le patate, viene preparato con i fagiolini e le patate, o con le coste e le patate…
Purtroppo, per un certo periodo di tempo, c’è stata una drastica riduzione delle superfici coltivate con grano saraceno, principalmente per la modifica delle abitudini alimentari nonché per la scarsa redditività di tale coltura tradizionale, praticata interamente a mano e su piccoli appezzamenti di terreno, quindi senza l’aiuto della tecnologia che sveltisse certe fasi della lavorazione.
Fortunatamente un presidio slow food tutela il rilancio di questo importante poligonaceo, che non è proprio un cereale, ma ha lo stesso potere nutrizionale, dal momento che è alla base della preparazione dei tipici piatti della tradizione.
Si fanno diverse ipotesi circa la provenienza di questa pianta: le più accreditate sono che i Turchi avrebbero introdotto la pianta in Grecia e nella penisola balcanica. Da questa ipotesi deriverebbe il nome di Grano saraceno, cioè grano dei turchi o saraceni.
La seconda ipotesi sostiene che la diffusione sia avvenuta attraverso l’Asia e l’Europa del Nord
ad opera delle migrazioni dei popoli mongoli che dalla Russia meridionale portarono il grano fino alla Polonia e alla Germania, da dove si sarebbe diffuso nel resto d’Europa.
Il grano saraceno, nel Medioevo, divenne il sostentamento principale per le popolazioni della regione alpina, durante i lunghi e freddi inverni e i periodi di carestia.
Fino al 1800 venen coltivato anche tra i filari di vite alternandolo con orzo, segale e avena: una rotazione indispensabile per tenere sempre fertile il terreno, in un territorio occupato da borghi e castelli che facevano parte del sistema difensivo medievale.
Il grano saraceno, privo di glutine, è una specie di pianta a fiore appartenente alla famiglia delle Polygonaceae. Il nome forse deriva dalla forma del frutto che è un chicco semibruno triangolare. Il fiore è una campanula di 5 petali disposti a stella. È una pianta erbacea, annuale: il suo ciclo biologico si compie in 80-120 giorni. Raggiunge un’altezza che varia, a seconda delle varietà, dai 60 ai 120 centimetri.
L’esito della raccolta è molto incerto. Tutto dipende dalle condizioni climatiche caratterizzate dalla pioggia, il freddo, la neve e la nebbia.
E il tutto avviene con un rituale ben preciso: la semina avviene a spaglio: sul terreno non arato vengono gettati i semi a piccole manciate e poi si attende che questi crescano pian piano. La pianta è pronta per essere raccolta quando il campo si trasforma in un mare di fiorellini bianchi che ondeggiano al vento.
Quando si andava a passeggiare fino a San Rocco per fare la merenda, a base di salumi e pane di segale, si costeggiavano questi campi di minuscoli fiorellini bianchi, e mentre negli altri prati o nei campi di pannocchie noi bambini ci rincorrevamo, nessuno di noi si azzardava a mettere un solo piede dentro il prato. Capivamo che era troppo importante quello che stava crescendo…
La mietitura viene effettuata con la falce messoria, quindi si dispongono i fasci tagliati in covoni che si lasciano essiccare per 4 o 5 giorni finché i semi si separano. Poi avviene la battitura eseguita in coppia: a due a due, con due lunghi bastoni tenuti insieme da un nastro di cuoio (quello che si impugna più lungo e leggero, quello che si rotea più corto e pesante), si percuotono le piante per separare la paglia dai semi. Alla fine rimangono i chicchi di grano che si passano nel vaglio, un grande setaccio di vimini fatto per separare il grano dallo scarto di lavorazione più piccolo. Se le estensioni del terreno coltivate sono piu vast, si usa la mietitrebbia, che porta i chicchi nel ventilabro (o mulinel) che separa con un sistema di ventilazione il grano saraceno dai sassolini e dagli scarti leggeri, come la paglia e l’erba secca.
La mietitura era uno spettacolo per noi villeggianti venuti dalla città. Seguivamo da lontano ogni fase del raccolto e guardavamo con curiosità i contadini, con un fazzoletto in testa e uno sul naso per non respirare la polvere che si alzava durante la battitura. E quando mangiavamo la polenta, i pizzoccheri o il pane di segale lo facevamo in una maniera più “sentita” perchè avevamo visto quanta fatica e amore mettevano i contadini nel loro lavoro.
I semi vengono poi sistemati nei “pelorsc” di canapa (dei grossi teli) per due mesi nelle soffitte ventilate delle vecchie case.
La lavorazione di macina avviene ancora in qualche mulino in pietra ad acqua. I semi scuri si trasformano in farina integrale: il furmentun o farina negra, preziosa per il piatto principe tipico della cucina locale.
Come si può notare, la cura e la lavorazione di questo preziosissimo “cereale” non è priva di rischi e di insuccessi. Il lavoro che è alla base di tutta la linea produttiva è molto minuzioso.
C’era una simpatica vecchina che gestiva il forno del paese. Il locale era grezzo, ricavato dalla roccia: le pareti non erano lisce e sembrava di entrare nel cuore della montagna. C’era un grande forno che ti accoglieva appena entravi. Era tutto avvolto dalla penombra, e sul soffitto, con le travi a vista, erano appesi dei lunghi bastoni con infilzate le “ruote” di pan di segale lasciate lì a seccare.Quando le nostre mamme ci mandavano al mulino dall’Angelina, dovevamo dire quante “ruote” di pan di segale volevamo, e se fresco o secco. Quello secco lo mangiavamo nella minestra. E poi chiedevamo anche la ciambella dolce, una morbidissima ciambella cosparsa di zucchero semolato che ti sporcava il naso quando la mangiavi, perché non riuscivi a trattenerti da quanto era buona. Il profumo che c’era in quel forno non si può dimenticare. E nemmeno i racconti dell’Angelina che affascinavano noi bambini.
E’ ammirevole che si sia deciso di riportare in auge nuovamente questo dono prezioso della natura. Per questo alcune persone hanno fondato l’Accademia del Pizzocchero di Teglio che garantisce e tutela nella sua unicità ed originalità questo piatto, così come sono tutelate le altre specialità dagli chef incaricati dall’Associazione Cuochi di Valtellina e Valchiavenna.
Da settembre, i ristoranti soci dell’ Accademia propongono week end con menu a tema, differenziati per stagionalità. E sono sempre più numerose le persone che aderiscono a questa iniziativa.
Ogni anno, in estate, andavamo tutti su in pineta alla Festa dei Pizzoccheri. Si saliva sempre presto, per occupare i tavoloni di legno che venivano presi d’assalto da tutti coloro che arrivavano anche dalla valle. C’era il coro di montagna: i cantori erano vestiti con i costumi tradizionali ed era emozionante sentirli cantare! Facevamo delle immense mangiate di pizzoccheri e di sciatt – le frittelle di pastella con dentro cubetti di formaggio e cicorino tagliato sottilissimo – di pane di segale e di ciambelle dolci. Che giornate indimenticabili.
Ma non mangiavamo i pizzoccheri solo in occasione della festa: la mamma e la nonna iniziavano a metà mattinata a prepararli anche in molte altre occasioni. E ne preparavano davvero tanti, perché si condivideva questo momento con i nostri amici o parenti.
Allora guardavo quando mescolavano la farina bianca e quella nera, le versavano poi sul tavolo e facevano una fontana nel mezzo. Ci aggiungevano l’acqua e cominciavano ad impastare. Per me era magia vedere quell’insieme informe trasformarsi in una palla che veniva poi tirata con un grande mattarello in una sfoglia non troppo sottile, che veniva tagliata in lunghe strisce messe una sopra l’altra. Poi con una velocità che mi sembrava pericolosa per le mani, tagliavano le strisce in tante fettine larghe un dito.
Nel frattempo in un pentolone e facevano bollire l’acqua con dentro le foglie di verza e le patate. Buttavano la pasta e la lasciavano cuocere.
La mamma poi li scolava poco per volta, mentre la nonna aggiungeva una manciata di formaggio a cubetti, grana grattugiato e un po’ di burro fuso nel quale erano stati fatti dorare gli spicchi di aglio.
E così via fino ad esaurire tutti gli ingredienti
E poi tutti a tavola!
Questo modo di cucinare i pizzoccheri è rimasto invariato nel tempo: è una tradizione che si tramanda con orgoglio per tutelare un prodotto che è stato alla base dell’alimentazione delle popolazioni montane, nei tempi in cui non c’era tutta l’opulenza e la varietà dei giorni nostri, e che ora si è fortunatamente riscoperto. Questa è cucina “povera” solo di nome, perché è ricca di tanti valori che non si perderanno strada facendo, fino a quando ci saranno persone orgogliose delle proprie origini.
Un bellissimo reportage Antonella, ricco di informazioni e curiosità. Mi verrebbe voglia di ripartire per la Valtellina oggi stesso. E quel piatto di pizzoccheri parla da solo. Complimenti.
Grazie Patty! Se vuoi qualche dritta…basta chiedere…conosco Teglio come le mie tasche!! ahahah
Stupendo articolo!!!! Se volete qualche info sulla cucina romagna per questa rubrica molto volentieri!!! 🙂
Ciao Erika: se non l'hai ancora fatto, scrivi a partecipo@aifb.it così ti inseriamo nella programmazione dei post 🙂
Grazie mille…anche in Romagna ho lasciato una buona parte della mia vita! E anche li non si scherza con le ricette della tradizione!
Grazie Antonella per questo reportate interessantissimo. Quante cose si possono scoprire partendo da un semplice piatto povero!
Hai ragione. Piatto povero ,ma ricco si sapore e di ricordi…..