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Pubblicazione: 21/09/2022
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I grani antichi italiani sono i protagonisti della rivoluzione agricola e alimentare in atto da alcuni anni nel nostro Paese. Un cambiamento profondo che pone al centro l’uomo e il territorio: da una parte un numero sempre crescente di agricoltori che si dedicano alla coltivazione di grani dimenticati rispettando la terra e i suoi ritmi, dall’altra i consumatori sempre più consapevoli dell’impatto socio economico delle loro scelte alimentari. A fare da ponte istituzioni, associazioni di settore e food blogger con il compito di raccontare al pubblico la bellezza e l’importanza di una cerealicoltura sostenibile.
In questo articolo scopriremo i grani antichi italiani: la loro storia, le loro caratteristiche e come utilizzarli al meglio in cucina.
La definizione “grani antichi” indica tutti i grani preesistenti alla rivoluzione verde avvenuta tra gli anni ’40 e gli anni ’70 del ‘900. Include perciò grani antichissimi, come il farro e altri più recenti; per capire meglio facciamo un passo indietro.
Per millenni il rapporto tra l’uomo e il grano è stato regolato dalla natura: si coltivavano le specie autoctone in quantità limitata alle capacità produttive del terreno e sui raccolti gravava lo spettro di condizioni climatiche avverse e di infestazioni di parassiti. Il miglioramento delle sementi e la maggior resa delle stesse era una necessità alla quale in Italia rispose Nazareno Strampelli. Agronomo e genetista italiano, nei primi anni del’ 900 sulla scia di Mendel, iniziò studi basati sull’ibridazione. Nel corso della sua carriera diede vita a numerosi grani sfruttabili commercialmente: uno su tutti il celebre Senatore Cappelli. L’incremento della produzione cerealicola permise al nostro Paese di sopravvivere durante la Seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi.
La ricerca di grani ad alta resa adatti alla panificazione non si fermò con Strampelli e nel 1944 la fondazione Rockfeller iniziò a finanziare studi per aumentare le produzioni agricole. Gli anni seguenti segnarono una vera e propria “rivoluzione verde”: grazie alla selezione genetica di nuove varietà di grano, all’uso di fitofarmaci e di mezzi meccanici si ebbe un significativo incremento delle produzioni agricole dovuto alla maggior resistenza dei grani alle malattie e alle condizioni climatiche. Questo consentì di sfamare milioni di persone in maniera più facile ed economica ma causò l’impoverimento dei terreni, la perdita della biodiversità e un aumento dell’inquinamento.
La cultura ambientale diffusasi negli ultimi anni ha creato una sinergia tra i produttori che hanno riscoperto i grani antichi dando nuova vita a terreni stremati da coltivazioni intensive e i consumatori, sempre più consapevoli dell’impatto socio economico delle loro scelte alimentari.
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Portare sulle nostre tavole i grani antichi è una scelta che tutela sia l’ambiente sia la nostra salute e permette di far rivivere territori e tradizioni che rischierebbero di scomparire.
Vediamo quali sono i motivi principali per cui dovremmo prediligere le antiche varietà.
Ora che conosciamo la loro storia e le loro caratteristiche vediamo come possiamo usarli in cucina.
Viaggiando lungo la nostra Penisola è facile imbattersi in appezzamenti di terreno più o meno grandi dedicati alla coltivazione dei grani antichi.
Nelle campagne toscane troviamo campi di farro della Garfagnana protagonista di zuppe e pani locali.
Attraversando il Lazio troviamo la piana Reatina dove Nazareno Strampelli condusse i suoi esperimenti selezionando, tra le altre varietà di grani, anche il Rieti.
Il clima freddo e rigido dei monti abruzzesi fa crescere grani resistenti al vento e alle basse temperature.
Passando al clima caldo del Sud troviamo il Tavoliere delle Puglie “Granaio d’Italia” e la Sicilia, protagonisti indiscussi della coltivazione dei grani antichi.
Viaggiare attraverso le pianure del Sud Italia è una gioia per gli occhi, che possono ammirare immense distese di grano, ma anche per il palato. È infatti possibile gustare una grande varietà di pani e prodotti da forno preparati con grani antichi: tra Enna e Catania, per esempio, viene prodotto il Pane del Dittaino DOP di cui ci racconta Daniela Pennisi nel suo ultimo articolo.
Va precisato che la divisione per aree è indicativa e si riferisce per lo più alle origini dei singoli grani. Negli anni le varietà “hanno viaggiato” trasportate dal vento e dagli uomini, per cui coltivazioni native di una regione sono state impiantate nei territori vicini accomunati dalle stesse condizioni climatiche.
La Sicilia vanta ben 52 grani antichi coltivati e diffusi sull’isola prima del ‘900. Tra i più famosi il Perciasacchi coltivato per lo più nell’agrigentino e molito a pietra dà vita a farine e semole.
Il Tumminia (o Timilia) in passato era diffuso in larga parte del meridione ma oggi viene coltivato per lo più in Sicilia. La sua farina è alla base del pane nero di Castelvetrano.
Tra le più antiche varietà di grano duro dell’isola troviamo il Russello che prende il nome dalla sua spiga dal caratteristico colore rossastro.
Chiudiamo con il Biancolilla, molto diffuso fino alla rivoluzione verde e poi soppiantato da grani più produttivi. La sua coltivazione oggi è limitata a piccole aree
In Puglia troviamo il Maiorca, grano antico da cui si ricava una farina bianca con una buona percentuale di proteine che viene usata per preparare dolci tipici. È coltivato anche in Calabria, Basilicata e in piccole zone della Sicilia.
In Puglia si semina anche il famosissimo grano Senatore Cappelli, dedicato da Strampelli politico che l’aveva sostenuto nel suo lavoro di ricerca. È un grano duro impiegato principalmente per la preparazione della pasta e di pani rustici.
In Toscana troviamo tre varietà principali: il Gentil Rosso, selezionato nel 1800, con spighe alte e dal colore rosso. Dà vita a una farina debole che potrete miscelare con quella di farro, la cui coltivazione è ampiamente diffusa nella regione.
Il Verna, diffuso in Valdichiana e in Val d’Orcia, a basso contenuto di glutine, necessità di farine più forti per una buona resa nella panificazione. Viene utilizzato per il celebre pane toscano.
Infine il Farro, tra i grani più antichi del mondo è coltivato per lo più nella zona della Garfagnana.
L’Abruzzo è terra di Solina grano antico coltivato fin dal XVI secolo nelle zone montane. Resistente al freddo e alle intemperie dà origine a una farina poco tenace e poco adatta all’uso in purezza. È coltivato anche in Umbria dove viene usato per preparare il Pane aquilano.
Tra Abruzzo e Umbria si coltiva anche il Saragolla, antica varietà di Khorasan, caratterizzato da un alto fusto e dal colore giallo intenso.
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Articolo bellissimo e molto interessante.
Grazie!
Un bell’articolo, interessante e ben scritto.
Grazie Gioia!
Grazie Silvia.
Pur nella sua stringatezza, l’articolo, al di là delle citazioni di alcuni grani, invita a sviluppare l’interesse di chi ama questo argomento per la conoscenza del grano italiano, da preferirsi per la sua capacità di regalare profumi straordinari ad esempio al pane. Mi permetto di suddividere il grano attualmente coltivato in Italia nelle seguenti categorie:
a – grani antichi; quelli presenti in Italia prima di Roma, quindi quelli introdotti dai Coloni greci nel 800-700 a.C. (es. Tumminia in Sicilia e il Khorasan in Puglia)
b – i grani storici; tutti quelli realizzati con gli incroci da Nazzareno Strampelli nella prima metà del secolo scorso (il più famoso è il Senatore Cappelli, grano durio; e i vari Mentana, Piave, balilla, ecc, fra i grani teneri)
c – i grani di importazione, soprattutto USA (di alta produzione ma di nessun profumo nel prodotto finale)
d – i nuovi grani: frutto di selezioni e incroci avvenuti in Italiana negli ultimi decenni, di ottima produzione (cito il Bologna, ma ce ne sono molti altri).
Ancora non c’è uno studio pubblicato sulle varie categorie di grani, la loro origine, le loro caratteristiche chimiche e nutrizionali, sulla loro resa per ha e sulle caratteristiche dei prodotti finiti (pane, pasta, biscotti, dolci, ecc.). E’ un lavoro che le Facoltà universitarie di Agraria (Padova, Bologna, ecc.)e di di gastronomia (parma, Milano, Pollenzo, ecc.) dovrebbero realizzare e pubblicare, se vogliamo che l’Italia dia un maggior valore anche culturale alla propria cucina.