
27 Settembre 2023
Favole in cucina: Cappuccetto Rosso e il Lupo
La nostra Signora delle favole ci racconta la sua rivisitazione di Cappuccetto Rosso e il Lupo, naturalmente in chiave golosa e gastronomica...
Pubblicazione: 28 Maggio 2016
Il cibo è l’energia che permette la vita. E’ naturale che abbia da sempre occupato un posto di grande rilievo nell’iconografia di tutte le epoche storiche, a cominciare dalle incisioni rupestri fino all’arte contemporanea.
Nelle caverne riproduzioni di scene di caccia e di spiedi rudimentali venivano realizzate con carbone, succhi vegetali o terre. Panifici, birrifici e banchetti erano soggetti frequenti dei bassorilievi di Assiri e Babilonesi, mentre gli Egizi rappresentavano perfettamente la loro quotidianità attraverso gli affreschi delle tombe. Nella “mezzaluna fertile”, in Mesopotamia, gruppi di cacciatori e raccoglitori di bacche si trasformavano in agricoltori e allevatori, ed anche questo è stato documentato attraverso la rappresentazione artistica.
L’arte greca sovente rappresentava il banchetto e il simposio nelle decorazione dei vasi di ceramica attica e corinzia, mentre gli Etruschi lo predilessero come soggetto nell’arte funeraria. I Romani tappezzavano i muri e i pavimenti delle sontuose dimore con affreschi e mosaici ridondanti di cibi e bevande, pesci e molluschi, volatili e cacciagione, frutta e verdura.
Nell’alto Medioevo sono rare le rappresentazioni di banchetti, mentre abbondano scene di agricoltura e trasformazione delle materie prime: il grano si raccoglie e si trasforma in farina e poi in pane; così l’uva in vino, le olive in olio. Il cibo era considerato il frutto del duro lavoro dell’uomo e dono di Dio, necessità di nutrimento e non fonte di piacere.
Solo nel tardo Medioevo appaiono scene di banchetti, feste, osterie, tavole imbandite; mentre nel Rinascimento e nel Barocco il cibo diviene addirittura il protagonista di tele, studiato fin nei minimi particolari nelle nature morte. Si torna a rappresentare il cibo come modello estetico, energia cromatica, varietà ed equilibrio di forme. Ma anche i luoghi del cibo diventano importanti: la cucina, la bottega, il mercato.
Attraverso la rappresentazione del cibo possiamo risalire alla situazione storica, sociale ed economica dell’epoca cui essa si riferisce.
L’alimentazione diventa arte nel momento in cui inizia un cammino estetico attraverso il cibo stesso, parallelo a quello della semplice soddisfazione dei bisogni nutritivi. E ciò avviene sì con la rappresentazione estetica degli alimenti e delle preparazioni culinarie, ma prima ancora con l’idea che il cibo stesso possa costituire un materiale espressivo per chi lo manipola, soprattutto, ma anche per chi lo gusta.
Quest’idea parte dal concetto di trasformazione delle materie prime e cottura degli alimenti, peculiare della razza umana.
Vedere il cibo non solo come necessità, ma anche come materia plasmabile, da trasformare in altro, da ammirare, da offrire, da percepire con i cinque sensi: è questo che fa la differenza. Cibo per prendersi cura di qualcuno. Cibo per annusare i profumi della terra, per ammirare i colori della natura. Cibo per esprimersi pittoricamente e plasticamente. Cibo per godere dei piaceri della vita, sovente accostato alla sensualità e sessualità, utilizzato simbolicamente in chiave erotica.
“Mangiare con gli occhi” è il senso di questo passaggio, ciò che stimola il desiderio di cibo con la conseguente “acquolina in bocca”, e al tempo stesso permette un’esperienza estetica ed emotiva.
Tutto questo è sempre stato naturale per noi umani: ex cacciatori e raccoglitori di bacche, trasformati in agricoltori e allevatori, abbiamo dedicato alle attività legate all’alimentazione la maggior parte del tempo della nostra vita.
Anche l’artigianato ha ruotato in gran parte attorno al mondo alimentare, con la produzione di utensili, manufatti tessili, mobili atti a contenere e presentare gli alimenti. Manufatti che troviamo non solo nelle case, ma anche nelle tombe, assieme ad affreschi e statue raffiguranti scene di banchetti. Un modo per comunicare col mondo dei morti e trasmettere affetto ai propri cari, prendendosene cura. Dunque il cibo come aspetto essenziale nella vita e nella morte.
LA RAPPRESENTAZIONE DEL CIBO NELL’ANTICA ARTE FUNERARIA
L’arte funeraria rappresenta uno dei tanti modi per esorcizzare la morte, rifiutare il nulla ed affermare l’idea di una vita ultraterrena del tutto simile a quella terrena.
Gli antichi Egizi ritenevano che l’anima del defunto avesse bisogno di mangiare e bere dopo la morte, di godere di tutto ciò che la vita gli aveva offerto. Per questo venivano lasciate nelle tombe scorte di cibo, conservate in vasi e suppellettili, che dovevano garantire al defunto la sopravvivenza ultraterrena.
Numerose sono le scene conviviali rappresentate sulle pareti delle tombe, preziosa fonte di informazioni sulla dieta dell’antico Egitto, assieme ai resti di cibo, giunti a noi ben conservati, talvolta quasi inalterati. Il pane e la birra erano gli alimenti più comuni già dal 3000 a.C. Statuine e stele funerarie rappresentano donne che macinano cereali o che preparano il pane o la birra.
Prima della sepoltura veniva compiuto il rituale dell’apertura della bocca e degli occhi, per riattivare i sensi del defunto nella vita ultraterrena. Al funerale i parenti offrivano un vero e proprio banchetto davanti alla tomba.
Straordinaria è la vitalità e l’energia che trapela dalle raffigurazioni murali delle tombe etrusche, segno di una comunità gaudente e ricca, nella quale le donne avevano diritti e dignità pari agli uomini.
Il meraviglioso affresco della tomba dei leopardi, nella necropoli etrusca di Tarquinia è esemplare: raffigura un uomo che banchetta su un triclinio ed ha un calice di vino nella mano sinistra e un uovo nella destra. E’ evidente il simbolismo della continuità della vita attraverso la rinascita.
Nelle tombe etrusche veniva perfettamente ricreato l’ambiente nel quale il defunto aveva vissuto, fin nei minimi particolari. Lo sfarzo della tomba denotava l’alto stato sociale del defunto.
Strumenti e suppellettili da cucina, trovati nelle tombe etrusche, ci raccontano non solo le abitudini alimentari di questo popolo, ma anche le tecniche di cottura e trasformazione delle materie prime nelle varie preparazioni culinarie. Sappiamo per esempio dell’uso della forchetta, o del colino: davvero moderni questi etruschi!
Anche nella società romana il banchetto costituisce un elemento di connubio tra il mondo terreno e l’aldilà. Pitture, sculture e arredi funerari ritraggono spesso il defunto banchettante sdraiato sul kline, assistito da un servo.
Nel periodo imperiale la simbologia del banchetto è legata ad un’idea edonistica ed epicurea, alludendo alla caducità della vita e invitando al pieno godimento dei piaceri del gusto durante la propria esistenza. Un esempio significativo di questa filosofia di vita lo ravvisiamo in Lucullo e Nerone, ma soprattutto in Petronio nel suo Satyricon, per bocca di Trimalcione. Ed ancora questo concetto si riscontra nel Tesoro di Boscoreale, in due coppe d’argento, dove sono raffigurati scheletri di filosofi e letterati greci affiancati da scritte che invitano al godimento dei piaceri della vita.
La tradizione funeraria del banchetto continuerà anche nel periodo cristiano, ovviamente con significati diversi. Nelle catacombe romane dei S.S. Marcellino e Pietro si trovano diversi affreschi raffiguranti banchetti in cui il vino è protagonista e simbolo dell’agape. E’ visibile uno scalda bevande, testimonianza dell’uso di allungare il vino con acqua calda in inverno (e con acqua fredda in estate). Anche nelle Catacombe di San Callisto, sempre a Roma, compare un affresco con pani e pesci.
IL DESCO DI DIO: SIMBOLI E RIFERIMENTI EVANGELICI E BIBLICI
Tutto ebbe inizio con un frutto, la mela per alcuni, il fico per altri, il frutto del peccato. La causa della rottura dell’idillio tra l’Uomo e Dio viene attribuita ad un alimento, simbolo della conoscenza, dell’immortalità, del piacere, ma anche della fragilità della razza umana. Al Museo del Prado di Madrid sono conservate le due famose tavole di Albrecht Durer “Adamo” ed “Eva”, con le fronde e il frutto del “melo”, “malum” in latino, che significa però anche “male”, e questo spiegherebbe l’equivoco sulla mela di Eva.
Nel Palazzo della Signoria a Firenze, storie di Mosè sono raffigurate da Agnolo Bronzino nella cappella privata della granduchessa Eleonora di Toledo. La raccolta della manna, associata all’acqua che viene fuori dalla roccia, prefigura il proposito del committente, il granduca Cosimo de’ Medici, di debellare la carestia e di salvare la Toscana.
Tra i banchetti più rappresentati nella storia dell’arte figura L’ultima cena, immediatamente seguita da la Cena in Emmaus e da Le Nozze di Cana.
Un affresco dell’ultima cena, nella chiesa dei Santi Vittorio e Corona a Feltre, mostra davanti a Cristo quattro gamberi di fiume rosso fuoco, che gli puntano contro le chele con atteggiamento minaccioso. Troviamo lo stesso soggetto (i gamberi) in un affresco attribuito a Dario di Pordenone (1420-1498) nella chiesa di San Gregorio a Treviso, e in una “Cena in casa di Simone” nella chiesa di Santa Maria in Solario a Brescia. Si contano almeno centocinquanta rappresentazioni dello stesso soggetto, utilizzato come simbolo di sacrificio, per il colore rosso assunto durante la cottura, e di rinascita, per il fatto che rinnova il carapace ad ogni cambio di stagione. A partire dal XII secolo i gamberi, e i crostacei in generale, indicano il passaggio dalla morte alla rinascita, dalle miserie della vita terrena allo splendore della vita ultraterrena. Anche la loro rappresentazione nelle nature morte seicentesche nasconde un simbolismo sacro.
L’ultima Cena della Cappella degli Scrovegni a Padova, opera di Giotto, è di chiara ispirazione medievale, ma sono già evidenti le conquiste prospettiche ed espressive tipiche del grande precursore della pittura moderna. Il cibo non compare, la tavola è appena visibile, alcuni apostoli voltano le spalle allo spettatore, a differenza del Cenacolo di Leonardo da Vinci, che dispone tutti i soggetti di fronte allo spettatore, evidenziandone gesti ed espressioni del viso, tutte diverse. Straordinaria è l’attenzione ai dettagli della tavola: i piatti, i bicchieri riempiti per metà, i numerosi pani appoggiati lungo tutta la tavola, le pieghe della tovaglia, che presenta un fine ricamo azzurro. Ad ogni apostolo è attribuito un bicchiere, un coltello e un piatto con del pesce, altro simbolo eucaristico. Un particolare significativo è rappresentato dalla saliera fatta cadere da Giuda, in contrapposizione a quelle piene di Giacomo e Matteo. Il significato del sale sprecato va trovato nelle parole del Sermone della montagna, nel Vangelo di Matteo, ove con “il sale della terra”, Gesù definisce gli apostoli. Giuda avrebbe sprecato l’occasione di diventarlo, come dimostra il sale versato.
Completamente diversa è l’impostazione dell’Ultima Cena del Tintoretto, conservata nella Chiesa di San Giorgio Maggiore a Venezia. Siamo all’interno di una tipica taverna veneziana, la cena è un banchetto pasquale ebraico con l’agnello, il brodo di lattughe selvatiche, i pani azzimi. Sul tavolino di servizio si distinguono la pisside per le particole, il secchiello e l’aspersorio per l’incenso, mentre al centro della stanza una bacinella e un asciugatoio per il lavacro rituale dei ministri del culto. La tavola è inquadrata dall’alto con inclinazione obliqua, c’è buio ma anche tre fonti di illuminazione che determinano forti contrasti chiaroscurali. Una delle fonti di luce proviene dal Cristo che spezza il pane e lo distribuisce. Al centro della scena il vivandiere rifiuta vistosamente la manna offerta dalla lavapiatti, preferendo la frutta fresca sulla credenza. La manna è una sineddoche dell’ebraismo e la frutta rappresenta la promessa cristiana della felicità eterna.
Platealmente teatrale è L’ultima cena di Paolo Veronese, titolata successivamente “Cena in casa di Levi”, una tela di enormi dimensioni conservata alle Gallerie dell’Accademia a Venezia. L’ambientazione è in un sontuoso palazzo in stile palladiano, con logge e scalinate sormontate da maestose colonne, affollate da un gran numero di “comparse”. Si contano ben trentotto servitori, tra i quali lo scalco, il credenziere, il trinciante e i coppieri. La tavola, coperta da sontuose tovaglie, è riccamente imbandita: vini bianchi e rossi in coppe di finissimo cristallo, un grande vassoio con un pollo intero e un agnello, altri vassoi ricolmi di prelibatezze, persino una torta con un disegno a forma di croce. E’ decisamente una tavola barocca che inneggia addirittura allo spreco e alla lussuria, secondo l’Inquisizione, con le figure di un gatto che gioca con un osso sotto la tavola e di un pappagallo sul braccio di un nano, accarezzato da un moro. Questa tela costò al Veronese una convocazione ufficiale dal Tribunale dell’Inquisizione. Veronese riuscì comunque a fornire una plausibile spiegazione alle sue scelte pittoriche, ma dovette cambiare il titolo dell’opera.
Caravaggio dipinse due Cene in Emmaus, a distanza di pochi anni, molto diverse tra loro. La prima, del 1601-2, conservata alla National Gallery, è un vero e proprio trionfo del barocco per l’abbondanza del cibo e l’arredo della tavola. Vi sono piatti, bicchieri, pani di diverse forme, un pollo e un canestro di frutta che “sfonda” la tela, sporge dal tavolo esattamente come la più famosa natura morta del Caravaggio, anzi direi la più famosa natura morta della storia dell’arte. Alcuni critici ritengono che ogni alimento rappresentato abbia un preciso significato simbolico: il pollo la morte, pane e vino la vita, il melograno la Resurrezione dopo il sangue versato, l’uva nera la morte e l’uva bianca la vita, il pesce, disegnato dall’ombra del canestro, il Cristo. La seconda Cena è completamente diversa, molto più sobria e frugale. E’ una tavola di poveri pellegrini dove il pane , il pesce e una brocca di vino sono i pochi elementi per il desco. Dopo gli anni più tragici della sua vita, l’assassinio e la fuga, Caravaggio conferisce a questa opera una cupa drammaticità, quella della sua anima inquieta.
L’ultima cena di Salvador Dalì è un’opera densa di significati filosofici e metafisici, in cui è inserito anche un elemento provocatorio considerato blasfemo, nella rappresentazione del Cristo con il volto di Gala, moglie del pittore. Sulla rustica tavola, solo parzialmente coperta da una tovaglia bianca con i segni di piegatura, vi è un pane spezzato in due e un bicchiere di vino che proietta un lungo e luminoso riflesso sulla tovaglia. Cristo è avvolto in una luce intensa che proviene dal bellissimo paesaggio di Lligat; gli apostoli sono immersi nella preghiera, non riconoscibili. Il cibo diventa pura spiritualità. Il tutto è inscritto in un dodecaedro, geometria platonica, richiamo alla perfezione e all’equilibrio.
Nel ciclo degli affreschi della Cappella degli Scrovegni, di Padova, Giotto dipinse Le Nozze di Cana. Possiamo notare, come prima, la scarsa importanza del cibo, rappresentato solo da qualche pane in una tavola quasi disadorna, pur trattandosi di un banchetto di nozze. L’omonima opera di Paolo Veronese risulta, come l’Ultima Cena, l’esatto contrario, uno spaccato dell’opulenta società veneziana del suo tempo, in uno scenario teatrale affollatissimo e vistosamente ricco.
Le Nozze di Cana di Hieronymus Bosch, Rotterdam 1475-90, descrive il miracolo nel momento in cui avviene. Sul tavolo vi sono piccole forme di pane, diversi taglieri, pochi piatti condivisi tra gli invitati, all’uso medievale. Il numero dei coltelli corrisponde a quello degli invitati. Il coltello cessa di essere un’arma e diventa “posata”. Un inserviente reca un cigno in un piatto da portata, emblema della virtù, mentre un altro porta la testa di un cinghiale, emblema del vizio. In questo modo Bosch ricorda come ogni uomo debba fare la sua scelta durante l’esistenza.
NOZZE, FESTE E TAVOLE IMBANDITE
“Non ci sediamo a tavola per mangiare, ma per mangiare insieme.” (Plutarco)
Innumerevoli scritti testimoniano banchetti rituali già presso i Sumeri del terzo millennio a.C., durante i quali si suggellavano accordi e si rafforzavano i rapporti interpersonali. Nel “Banchetto sotto il pergolato di Assurbanipal” , del VII sec. A. C., conservato al British Museum, compare il sovrano sdraiato sul divano e la regina seduta sul trono. Affreschi egizi, etruschi e romani ritraggono banchetti lussuosi e splendidi. Oltre a quelli già citati dell’arte funeraria, abbiamo quelli rappresentati in tanti meravigliosi mosaici ed affreschi di epoca imperiale, conservati nei musei o nelle aree archeologiche più note ed affascinanti.
Nella villa romana del Tellaro, presso Noto, vi sono straordinari mosaici pavimentali, tra cui la scena di un banchetto all’aperto, con servi affaccendati con le portate, i commensali che mangiano sotto gli alberi e i cavalli che si riposano dopo la caccia.
Preziose miniature medievali ritraggono banchetti dell’epoca, fornendoci informazioni interessanti sui comportamenti e gli arredi. Nel suo libro “Dalla tela alla tavola” (vedi fonti bibliografiche, pagg. 37-38) Elisabetta Bodini mette a confronto due miniature medievali, entrambe rappresentanti il banchetto offerto da Carlo il Saggio in onore di Carlo IV di ritorno dalla Crociata, ma di epoca diversa, a cento anni di distanza l’una dall’altra. Quella più recente (1460 ca.) evidenzia l’uso di posate e piatti per ogni commensale, uso introdotto proprio in quel periodo.
Tra gli affreschi dei fratelli Zavattari, che si possono ammirare nel Duomo di Monza, dedicati alla Regina Teodolinda, spicca quello che raffigura le sue nozze con Autari. Sul tavolo un solo particolare ci rivela che si tratta di una festa di nozze: i confetti. Il loro uso, riservato ai matrimoni, diffusosi in tutta Italia, proveniva dalla Sicilia, e , ancora prima, dagli Arabi.
Le cronache rinascimentali narrano di fantastici banchetti con complicate scenografie a cura di grandi artisti, sbalorditive architetture di vivande e colpi di scena teatrali quali, ad esempio, animali vivi che uscivano da torte di marzapane, la tavola che sprofondava nel pavimento tra una portata e l’altra tra boati di tuoni, finte tovaglie e tovaglioli fatti di zucchero di canna, allora considerato una spezia. Esemplari furono le nozze di Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, celebratesi nel 1600 a Firenze, durante le quali venne rappresentato anche uno dei primi melodrammi della storia dell’opera lirica, “Euridice” , su libretto di Ottavio Rinuccini, musicato da Jacopo Peri e Giulio Caccini. Aneddotica anche la vicenda del maestro di cerimonie Vatel, presso il Castello di Chantilly al servizio del Principe di Condé: la sua tragica scomparsa rese impossibile la “messa in scena” del suo ultimo lavoro, un giardino di ghiaccio popolato da personaggi mitologici marini, in occasione di un pranzo a base di pesce.
Il “Banchetto in un interno di palazzo” di Louis de Caullery è fastoso e allegorico: numerosi sono gli ospiti, un gruppo di musici allieta il pranzo, il vino è offerto da paggi in coppe preziose. Un’austera figura vestita di nero ammonisce contro gli eccessi, mentre contempla le scene di battaglie e naufragi che decorano le pareti della sala.
Il “Banchetto delle scimmie” di David Teniers il Giovane, 1660, conservato al Prado, porta agli estremi l’aspetto buffonesco e caricaturale del tema, con scimmie scomposte e quasi indecenti al posto dei commensali e una tavola imbandita con ogni prelibatezza.
Tra i banchetti più famosi della storia della pittura figura “Nozze paesane” di Pieter Brueghel il Vecchio. Il “Brueghel del contadini” era solito partecipare a feste paesane travestito da villico, per coglierne meglio le suggestioni. La scena dell’opera si svolge in un fienile, gli unici arredi sono lo schienale di una panca, un arazzo verde appeso dietro la sposa, due covoni di spighe con un rastrello. Il notaio occupa l’unica sedia presente, poi c’è un frate ed anche un cavaliere. I due suonatori di cornamusa, i colori vivaci degli abiti, le espressioni divertite e spensierate trasmettono un senso generale di allegria. La scena presenta molti elementi di dinamicità: i commensali ritratti nell’atto del mangiare, la prospettiva diagonale, l’oste che mesce il sidro nelle brocche, da cui gli ospiti bevono direttamente, la bambina accovacciata che si succhia il dito, solito richiamo moralistico. Colpiscono immediatamente i due servitori in primo piano, che portano ciotole di semplice farinata o polenta gialla e un’altra pietanza bianca (forse zuppa di porri, ma anche semolino o biancomangiare), usando come vassoio una porta scardinata. Uno dei servitori ha un mestolo di legno infilato nel cappello, e sembra stia allungando il passo; oppure no? Si vede un terzo piede sotto la porta-vassoio! Una geniale aggiunta che, assieme alle braccia del commensale che sta distribuendo i piatti, enfatizza il movimento, equilibra le linee prospettiche e conferisce profondità alla scena.
Dello stesso artista non possiamo non ricordare altri tre capolavori: “Combattimento tra Carnevale e Quaresima”, “Proverbi fiamminghi”, e “Il Paese di Cuccagna”. Ciò che li accomuna è la presenza di focacce che accompagnano il corteo del Carnevale e ornano il tetto di un’abitazione, da cui il proverbio fiammingo “il tetto è rivestito di focacce”. Nel “Combattimento” la narrazione è tutta basata sul contrasto tra l’abbondanza e la carestia, la sazietà e la fame, la trasgressione e la morigeratezza. Ognuno di questi capolavori del gigante dell’allegoria meriterebbe un’accurata analisi.
“L’allegra famiglia” di Jan Steen (1668, Amsterdam, Rijksmuseum) propone un modello di convivialità spontanea e disinibita. Ambientato nella casa del pittore, che si ritrae nei panni del suonatore di cornamusa, è una scenetta allegra dove regna un po’ di confusione, con stoviglie a terra, il cane che abbaia, commensali che suonano vari strumenti e cantano, e un grande prosciutto che troneggia sulla tavola.
L’atmosfera sensuale di un baccanale dionisiaco trapela senza dubbio nell’affresco di Giulio Romano a Palazzo Te a Mantova: “Banchetto nuziale di Amore e Psiche”. Si tratta di una scena mitologica in cui, oltre ad Amore e Psiche e alla figlia Voluptas, compaiono Cerere, Giunone, Dioniso, le Ore, Mercurio e Pan, che distribuisce il pane. Tutto è scintillante e fastoso, dal vasellame alla tavola, dal mobilio ai drappeggi. Il Marchese Federico II Gonzaga commissionò Palazzo Te a Giulio Romano per farne un sontuoso rifugio dove vivere in libertà la relazione con l’amante Isabella Boschetti.
Il “Banchetto di Antonio e Cleopatra” di Giambattista Tiepolo si svolge in una elegante scenografia ambientata nel ‘700 veneziano. La profondità è data da colonne e porticati, e da uno splendido pavimento marmoreo, costituito da geometrie bianche e nere che immediatamente costruiscono la visione prospettica. Gli ospiti conversano attorno ad un tavolo riccamente addobbato con pizzi, mentre valletti e servitori di colore portano grandi vassoi. Cleopatra offre ad Antonio un frutto preso da un’alzata posta al centro della tavola, chiaro riferimento biblico. Gli unici elementi in comune con l’opera di Brueghel sono le anfore per le bevande e il cane, ma in Tiepolo il cibo è secondario, in quanto l’artista vuole sottolineare l’aspetto sensuale dei due personaggi principali, quasi un convivio amoroso.
Nei secoli successivi il tema del banchetto diventa sempre più espressione della classe sociale in ascesa, la ricca borghesia, i nuovi committenti delle opere.
La Campagna Elettorale di William Hogart è una serie di quattro dipinti che raccontano, anche attraverso un banchetto, le lotte di potere in una cittadina inglese nella seconda metà del ‘700. Soggetto davvero singolare e attualissimo, viene presentato in forma comica ma molto realistica, una sorta di vaudeville, nella quale succede di tutto.
La cena del principe de’ Conti al tempio fu commissionata a Michel Barthélémy Ollivier dal Gran Priore dell’Ordine di Malta, in occasione del soggiorno parigino del piccolo Mozart e del principe di Brünswick.
Il Banchetto in casa Nani alla Giudecca, attribuito alla scuola di Pietro Longhi, ritrae l’enorme tavolata a ferro di cavallo allestita in onore della visita dell’Elettore di Colonia.
Il Banchetto nel salone delle feste al Municipio di Théodor Joseph H. Hoffbauer è il ricevimento più affollato della storia della pittura (1893, Musée Carnevalet, Parigi). La scena è ambientata nel salone delle feste del nuovo Municipio di Parigi, ricostruito dopo l’incendio del 1871. Centinaia di commensali in abito scuro brindano in piedi, illuminati da scintillanti lampadari che illuminano le splendide decorazioni del soffitto e delle pareti.
Il rapporto tra il potere e l’attività culinaria è una costante nella storia. Esemplare ne è la testimonianza di due personaggi ben noti, Talleyrand e Carême, il primo diplomatico e raffinato gourmand, il secondo di bassissima estrazione sociale, divenuto il più grande cuoco del suo tempo come in una favola. I loro destini si incrociarono: al Ministero degli Esteri Talleyrand lo volle al suo servizio, e nel 1815 , al Congresso di Vienna, se lo portò dietro per usare il momento conviviale a suo favore. Le più grandi risoluzioni, confessò in seguito, più che alla sua eloquenza, furono dovute all’arte culinaria del suo cuoco.
NATURA MORTA O NATURA VIVA?
“Con amore, Frida Kalho”, questa era la dedica scritta da Frida in molte sue nature “morte”, probabilmente doni che faceva al suo medico, lei creatura di infinita vitalità, costretta all’immobilità in un letto. Dipingeva supina, con un cavalletto costruito appositamente. I suoi frutti colorati e succosi, spesso aperti e offerti allo spettatore, sono vivi almeno quanto lei, trasmettono energia pura e sofferenza perenne. Sì, anche sofferenza, in quanto il frutto aperto è tagliato, come il suo povero corpo martoriato. Nelle sue opere è onnipresente questa dualità tra l’energia vitale e il dolore, l’amore e la sofferenza. Significativa una delle tante nature “morte” di Frida, “Natura viva”, in cui le radici dei frutti formano la scritta “naturaleza viva”.
Quando gli alimenti diventano il soggetto dell’opera e vengono rappresentati con dovizia di particolari, geniali cromie, sapienti giochi di luci e ombre, è difficile immaginarli senza vita. Si avverte questa vitalità partire dalla copiosa produzione di questo genere pittorico nel periodo fra manierismo e barocco, fino a Frida Kalho, Fernando Botero e altri artisti contemporanei.
Van Gogh si dedicò al genere in particolare durante il suo soggiorno ad Arles, colpito dalla luminosità di quel luogo. “Natura morta con cesto e sei arance” e “Natura morta con limoni e guanti blu” sono le opere che meglio hanno fissato sulla tela la calura estiva e la luce calda e intensa del sole.
La “Natura morta con caffettiera, frutta e lanterna” di Henri Rousseau (1910, collezione privata, Milano), fu dipinta come ripiego, per lo scrittore Ardengo Soffici, che si era innamorato di un’altra opera già venduta, che rappresentava un paesaggio. Soffici divenne proprietario di quella meraviglia per soli 30 franchi.
Il grande Maestro impressionista di “Colazione sull’erba”, Edouard Manet dipinse, verso la fine del XX secolo, numerose piccole nature morte con alimenti di varia natura, su tavolini semplici e piuttosto spogli. Ricordiamo ad esempio il “Limone” (Musée d’Orsay, parigi), “Natura morta con prosciutto” (Art gallery, Glasgow, 1875-78), “Natura morta con carpa e ostriche” (Chicago, Art Institute, 1864), ma anche “Natura morta con ostriche” e “Natura morta con pesce”, nelle quali spicca il giallo del limone su una base cromatica di grigi. Il limone è un elemento molto amato e rappresentato, non solo da Manet. I soggetti delle nature morte di Manet “non sono antipasti decorativi, ma persone, personaggi” , l’artista “ha messo l’immagine dell’uomo sullo stesso piano di una rosa o di una brioche (G. Bataille, Manet, Alinea Editrice, Firenze 1995).
Il colore giallo e la forma bitorzoluta di due limoni spicca anche nella “Natura morta di frutta e ortaggi” di Pietro Paolo Bonzi, uno specialista di quel genere, attivo a Roma al 1636. Ancora limoni nella “Natura morta con ortaggi e frutta” di Juan Sanchez Cotán, uno specialista della rappresentazione del “bodegón”, il vano dove venivano conservati i cibi.
La grande scuola fiamminga delle stilleven si esibì spessissimo nel saggio di bravura tecnica della scorza di limone tagliata. Ricordiamo a tal proposito la “Natura morta” di Jacob van Es, conservata al Prado, “Tavola imbandita” (1646) e “Natura morta con astice e aragosta” (1643, Minneapolis Institute of Arts) di Pieter Claesz , uno dei più importanti esponenti della Scuola di Haarlem, “Tavola imbandita” di Willem Claesz Heda, altro grande protagonista della Scuola di Haarlem, “Natura morta con strumenti musicali” di Cristoforo Munari, conservato agli Uffizi di Firenze, “Natura morta” di Jan Davidsz de Heem, “Natura morta con granchio e frutta” di Abraham Van Beyeren (L’Aja, Mauritshuis).
Un vero e proprio inventario delle specialità toscane è ritratto in “Vecchio di Artimino” di Giovanna Garzoni (1649, Palazzo Pitti). Commissionata da Lorenzo de’ Medici, l’opera aveva la funzione di illustrare i deliziosi prodotti della campagna intorno alla villa di Artimino.
Non si può dimenticare il contributo di Jacopo di Chimenti detto L’Empoli, specialista nella rappresentazione di pareti attrezzate con ganci e una gran quantità di cibi. Una sua “Natura morta” conservata agli Uffizi, fantasmagoria di forme e colori, trasmette un senso di abbondanza e accumulo.
Le nature morte di Louis Meléndez denotano grande gusto della composizione e curiosità scientifica che precorre la sensibilità illuminista. La “Natura morta con cetrioli e pomodori” (1772, Prado, Madrid) ne è la prova: il più famoso alimento arrivato in Europa dal Nuovo Mondo aveva sconfitto le iniziali perplessità sulla sua commestibilità e cominciava a conquistare le tavole. Meléndez era spagnolo, ma nato a Napoli, dove il pomodoro aveva avuto un’entusiastica accoglienza ed era stato inserito a pieno titolo tra gli elementi fondamentali della cucina partenopea. Meléndez è il maestro indiscusso della natura morta: si specializzò talmente tanto nel genere, che si contano pochissimi lavori con altri soggetti, tra cui un autoritratto.
Jean-Baptiste Chardin, altro gigante nel genere natura morta, erede della scuola fiamminga, divenne famoso per aver dipinto l’insegna di un famoso chirurgo parigino, raffigurandovi realisticamente le conseguenze di un duello. Nelle sue mense sono minuziosamente ritratti utensili da cucina, accanto a frutta e ortaggi, carni e pesci. Le delicate cromie immerse in una luce diffusa e avvolgente, il gusto per la composizione e l’attenzione per il dettaglio, caratterizzano ogni sua opera e denotano un’indubbia conoscenza e competenza in campo culinario. Siamo in piena epoca dei lumi, lo spirito scientifico ed enciclopedico del suo amico Diderot non gli era affatto estraneo. Di Chardin ricordiamo “Il menù di grasso” e “Il menù di magro” (Louvre), “La razza” (1728, Louvre), “Gli alimenti della convalescenza” (1747, National Gallery of Art, Washington), “Il tavolo di servizio” (1756, Louvre), “Il paniere di fragole di bosco” (1761, collezione privata) “Natura morta con brioche” (1763, Louvre), per citarne solo pochissimi. Queste le parole del suo amico Diderot: “Oh Chardin! Quello che mescoli sulla tua tavolozza non è del bianco, del rosso o del nero, ma la sostanza stessa degli oggetti; prendi con la punta del tuo pennello l’aria e la luce e le fissi sulla tela”.
Non si può terminare questa breve e riduttiva rassegna, senza citare le prime nature morte della storia dell’arte, le Xenia. Tra le tante, un “Vaso di cristallo con frutta” (I sec. d. C.) affresco proveniente dalla Villa di Boscoreale, ora al Museo Archeologico di Napoli, con la presenza di una melagrana aperta, promessa di resurrezione legata al culto di Proserpina. Il “Pavimento non spazzato” (II sec. d. C, Musei Vaticani), è una sorta di pavimento mimetico raffigurante i resti di cibo caduti a terra, che non venivano raccolti prima della fine del banchetto perché ritenuti sacri. Uno splendido “Canestro di fichi” della villa di Poppea a Oplontis ricorda quanto questi frutti fossero importanti nella dieta degli antichi romani. Ancor più sorprendente è un pavimento a mosaico del I sec. d. C. conservato a Palazzo Massimo a Roma. Il mosaico riproduce un cesto di frutta che nasconde un vero mistero. In esso sono riprodotti, partendo da sinistra, alcuni fichi, delle mele cotogne, un grappolo di uva nera, alcune melagrane e un alimento impossibile: un ananas. Questo frutto arrivò nel vecchio continente solo dopo i viaggi di Cristoforo Colombo. Com’è possibile che sia ritratto in quel mosaico?
MERCATI E BOTTEGHE
Roma e Pompei erano costellate di affreschi e mosaici che servivano sì a decorare gli interni delle dimore, ma fungevano anche da insegne di botteghe. L’affresco pompeiano che riproduce la bottega del fornaio è vivido e attuale, non vi sono grandi differenze con i banconi e gli scaffali delle moderne panetterie.
Nella ricca produzione del cremonese, Vincenzo Campi spicca per una serie di opere di notevoli dimensioni e ricchissime di particolari, atte a rappresentare i luoghi del cibo, soprattutto le botteghe. Sono scene vivaci e colorate, con prosperose fanciulle sorridenti e un’abbondanza di delizie.
“La pescivendola” è ambientata all’aperto e rappresenta un banco del pesce, forse al mercato. In primo piano spicca un cagnolino dal lungo pelo bianco che gioca con una donna sorridente, con in braccio il suo piccolo. Un uomo alle sue spalle sta incoraggiando il bimbo a mangiare con smorfie e versi. Dietro al bancone, vediamo la venditrice con ogni tipologia di pesci, conchiglie e molluschi. Sullo sfondo si scorgono il porticciolo e i pescatori.
Anche “La fruttivendola” è ambientata all’aperto. Una bella e giovane ragazza espone la frutta e la verdura in maniera molto ordinata. Ogni tipologia di frutta e verdura è riprodotta con minuziosità, gusto della forma e del colore. Per ognuna c’è un diverso contenitore; ma notiamo che sono frutti con diversa stagionalità, dunque un gusto cromatico ed estetico fine a sé stesso. Si possono notare carciofi, zucche, asparagi, ciliegie, fichi, uva, tutti maturi e freschi: uno spettacolo della natura, un trionfo dei colori.
“La Vucciria” di Renato Guttuso, una grande tela di tre metri quadrati, è un affettuoso omaggio a Palermo, attraverso il suo più famoso mercato. Anche qui ogni sorta di alimento è rappresentato in modo vivace e particolareggiato, ordinato tra i vari banconi, nonostante la confusione ed il poco spazio, abbondante e molto invitante. A destra, in basso, possiamo vedere le uova in grandi cassette di legno; al centro gli ortaggi e a sinistra un grande banco del pesce, dove spiccano alcuni grossi pescespada. Una delle “spade” è “impugnata” dal pescivendolo, quasi a voler presentare il suo “campione” ai clienti di passaggio. In primo piano, sulla destra, gran parte della scena è occupata da un maiale macellato e appeso al gancio: scena crudamente realistica, in curiosa contrapposizione alla vistosa donna ben inquadrata al centro, ma di schiena. “Vucciria” vuol dire proprio macelleria, dal francese “boucherie”; ma col tempo ha assunto il significato di “confusione”, la confusione che regna nei mercati del sud, ricchi di suoni, profumi e colori.
“Concludo questo mio breve excursus tra i mille capolavori che rappresentano il cibo, nelle diverse forme e significati, invitandovi a visitare i blog che oggi pubblicano un approfondimento su questo argomento. Ringrazio di cuore i contributors e, considerando la vastità della tematica, spero si aggiungano altre tessere di questo enorme puzzle.”
FONTI ICONOGRAFICHE
Vucciria di Guttuso http://livesicilia.it/2015/04/26/guttuso-allexpo-di-milano-in-partenza-la-tela-vucciria_620684/
Cena di Emmaus Caravaggio https://it.wikipedia.org/wiki/Cena_in_Emmaus_%28Caravaggio_Londra%29
Naturaleza Viva di Frida Kahlo http://jorgeanaya-artteacher.weebly.com/drawing–painting-i/animals-in-portraits-frida-kahlo
Natura Morta con Cetrioli e Pomodori di Melendez https://www.museodelprado.es/coleccion/obra-de-arte/bodegon-con-pepinos-tomates-y-recipientes/21039b15-8e52-46a7-8bee-d4a69de98e42
Il Tavolo di Servizio di Chardin http://www.copia-di-arte.com/a/chardin-jean-baptiste.html&sfl=1&INCLUDE=LIST
Affresco di Giuliano Romano a Palazzo Te di Mantova https://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_Te
Banchetto Funebre Romano http://www.taccuinistorici.it/ita/news/antica/usi—costumi/Storia-della-alimentazione-Banchetto-funebre-Romano.html
Tesoro di Boscoreale http://www.lavocesociale.it/domenica-convegno-alla-scoperta-del-tesoro-di-boscoreale/
FONTI BIBLIOGRAFICHE
Roberto Carretta- Renato Viola: “Tavole d’autore”, Il leone verde Edizioni
Elisabetta Bodini: “Dalla tela alla tavola”, Jouvence Historica
Alberto Veca: “Natura morta”, Arteddossier Giunti
Silvia Malaguzzi: “Arte e cibo”, Arteddossier Giunti
Giulio Carlo Argan: “Storia dell’arte italiana”
Immagine di copertina: Il cibo nell’arte
Valentina de Felice, Dal Mangiafagioli di Annibale Carracci: Pasta Fagioli e Cozze
Gabriella Pravato, Colazione sull’erba lo scandalo della verità
Antonella Eberlin, Cibo e Arte
Antonella Marconi, “Come vetrate artistiche. Il cibo visto da Alessandro Colonnetta.”
Nieri Sonia, Quando l’arte arriva al cibo
Tamara Giorgetti, Alzata con ciliegie
Manuela Valentini, Segantini, natura, funghi, cibo e arte
Cristina Tiddia, I limoni nella pittura
Eleonora Gaspari, “I mangiafagioli di Vincenzo Campi – Il cibo nell’arte”
Fausta Lavagna, dalla tavolozza alla tavola: il Seicento spagnolo in un piatto
Anna Laura Mattesini, Arte e Cibo: Pane e Vino per le Ultime Cene
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Un viaggio meraviglioso! Letto d’un fiato, come un uragano. Ora, me lo gusto pian piano….mi fa piacere che anche tu hai menzionato il fiammingo Claesz….era nell’altro mio contributo. Affinità artistiche ci accomunano doppiamente. Complimenti per questo stupendo e corposo contributo!
Grazie per aver affrontato l’argomento con grande slancio ed entusiasmo Antonella. In effetti è difficile non lasciarsi coinvolgere 🙂
Un caro saluto e buona domenica
Maria Teresa
Splendido articolo che ci fa percorrere la storia dell’uomo attraverso il cibo e l’arte grazie
Il tuo approfondimento su Segantini è molto interessante e ben fatto, grazie infinite Manuela.
Buona domenica
Maria teresa
Che ricchezza di contenuti Maria Teresa! Grazie!!
Tiziana
Grazie a te cara Tiziana, il tuo apprezzamento è per me importante e graditissimo.
Buona domenica
Maria Teresa
Argomento avvincente, articolo bellissimo letto d’un fiato. Brava davvero, non era affatto facile! E come promesso, ecco anche il mio piccolo contributo: http://eatparadeblog.it/arte
Ho subito letto e commentato il tuo articolo Anna Laura. Una tematica corposa che hai esposto con competenza e convinzione. Ti ringrazio tantissimo per aver esplorato questo aspetto. Che dire del pane? Mi è venuta subito voglia di provarlo, lo sai vero che sono una panificatrice compulsiva?!
Un caro saluto
Maria Teresa
Complimenti Maria Teresa, un articolo ben scritto, carico di informazioni e si legge benissimo, spero di aver dato un piccolo contributo con la mia fotografia…
Grazie Tamara, ho apprezzato moltissimo la tua foto artistica, devo ammettere che invidio la tua competenza fotografica! ividia buona però…
Un caro saluto
Maria Teresa
Argomento affascinante “Il cibo nell’arte” il quale suscita subito in me l’interesse più vivo che nutro già in maniera preponderante per tutti e due i temi a se stanti. E Maria Teresa non disattende le mie aspettative, anzi, riesce a “dipingere” un quadro storico-culturale raffinato ed illuminante di questo connubio sublime.
E’ difficile per me scindere l’arte dal cibo, si tratta sempre di “gusto”, di estetica, di bellezza. Come collega mi puoi capire, siamo appassionati ed entusiasti del bello, per fortuna riusciamo ad emozionarci. Grazie per le tue parole!
Maria Teresa
Un viaggio elegante e raffinato nell’arte che da sempre ha rappresentato “il cibo” in tutte le sue forme. Una trattazione completa e minuziosa del cibo inteso come arte in modo “intrinseco” capace di suscitare emozioni e di offrire esperienze sensoriali uniche e personali. Maria Tetesa Cutrone ci coinvolge, ci invita a riflettere sulla ricchezza culturale del cibo ancora troppi spesso considerato solo nutrimento del corpo.
Cara Elena le tue parole mi ricordano cosa ci accomuna, e tu hai alimentato non poco la mia passione per il cibo, motivandomi ed entusiasmandomi. Grazie davvero!
Un abbraccio
Maria Teresa
Anna Laura ho letto e commentato subito il tuo approfondimento sulle ultime cene, un tema corposo e ricco, che hai affrontato con entusiasmo e competenza. Un articolo completo il tuo, anche la ricetta del pane al vino! Lo proverò subito 🙂 grazie per il tuo contributo!
Un abbraccio
Maria Teresa
Complimenti Maria Teresa, articolo ben fatto e che rende onore a questo tema così affascinante. Bravissima!
Grazie Eleonora, grazie anche a te che hai contribuito!