Gli Italiani all’Estero

Pubblicazione: 26/09/2016

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Giornata Nazionale degli Italiani all’Estero

Ambasciatrice Stefania Mulè per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

“La feccia del pianeta, questo eravamo. O meglio: così eravamo visti. […]  Venivamo martellati da campagne di stampa indecenti contro «questa maledetta razza di assassini». Cercavamo casa schiacciati dalla fama d’essere «sporchi come maiali». […] Finivamo appesi nei pubblici linciaggi con l’accusa di fare i crumiri o semplicemente di essere «tutti siciliani». «Bel paese, brutta gente».

La vita degli Italiani all’estero non è certo stata facile. Decisamente. Eppure i nostri migranti non solo si sono scrollati di dosso tutti i pregiudizi che la grande emigrazione, tra l’Ottocento e il Novecento, si portò dietro di sé, ma sono riusciti ad affermare la propria identità e la propria cultura nel mondo, ribaltando ogni stereotipo ad essi associato, fra tutti quelli in ambito alimentare.

La cultura culinaria italiana nel mondo si è distinta proprio grazie ai quasi trenta milioni di Italiani che in un paio di secoli lasciarono la loro terra natìa per raggiungere i paesi in cui c’era maggiore richiesta di manodopera, non certo senza “contrattempi”: l’integrazione degli Italiani all’estero non è stata certo facile o indolore.

In tutti i fenomeni migratori, lo sforzo richiesto per adattarsi a nuovi contesti sociali è considerevole: occorre rapportarsi a differenti culture, superare la diffidenza reciproca nei confronti del diverso, senza per questo perdere i legami con le proprie origini, sapersi adattare ai mutamenti.

Per molti aspetti, il cibo ha avuto un ruolo fondamentale nell’affermazione degli italiani all’estero, favorendo il processo di integrazione e contribuendo a far sì che questi superassero quello che viene definito un vero e proprio “shock culturale”.

Il cibo è evocativo dei luoghi del cuore, dei propri affetti, diventa nutrimento soprattutto per l’anima: “non c’è nessuno che non trovi nel cibo un lenitivo alla propria ira, afflizione, tristezza e a tutte le passioni; perciò bisogna considerare ciò che esercita un’azione terapeutica non solo sul fisico, ma anche sul morale” (Plinio, Naturalis Historia  XXII, 52).

Il cibo tiene in vita il rapporto con la cultura di appartenenza, smorza la naturale nostalgia di casa che accompagna chiunque si trovi nelle condizioni di dover vivere lontano dai propri cari: un pacco di spaghetti, un mazzetto di basilico, un pezzo di Parmigiano Reggiano rappresentano per gli Italiani all’estero le proprie tradizioni e permettono di riavvicinarsi idealmente ai propri cari.

Il cibo è sempre stato per loro non solo un ponte verso la propria terra natìa, ma uno strumento di riappropriazione identitaria quando, vivendo in altri paesi, questa viene a mancare.

Il cibo è il primo mezzo di contatto tra la civiltà di appartenenza e quella del paese ospitante, una forma di scambio culturale che contribuisce, con poco sforzo, ad abbattere i muri della reciproca diffidenza, in quanto rappresenta “la soglia più accessibile di una cultura”. La cucina permette di tastare con cautela “l’altro”, senza necessariamente dover conoscere la lingua o le diverse tradizioni e abitudini. Ed è proprio dal confronto e dall’accettazione delle nuove culture che si afferma la propria identità.

Certo, le consuetudini alimentari dei primi Italiani all’estero non furono immediatamente apprezzate: i nostri compatrioti erano i mangiamaccheroni, quelli che impestavano con aglio e cipolla le proprie case e quelle dei vicini. E mangiavano in maniera inadeguata, secondo i nutrizionisti dell’epoca, che consideravano la loro alimentazione scarsa in proteine animali, perciò inadatta, da un punto di vista nutritivo, ad affrontare i lavori manuali. Solo ad inizio Novecento vennero condotti studi che dimostrarono come l’uso eccessivo dei grassi animali portasse a sviluppare una lunga serie di malattie. In breve tempo, l’aura di negatività attorno a questa alimentazione non solo sparì, ma anzi, divenne sinonimo di buona cucina, associata alla civiltà a tavola e alla frugalità universalmente apprezzata. Con la scoperta dei benefici della dieta mediterranea, la cucina italiana all’estero da povera divenne genuina e i ristoranti italiani nel mondo cominciarono ad essere frequentati non soltanto da Italiani e presero a proliferare in ogni dove.  In questi ristoranti i clienti del luogo non compravano solo cibo, ma uno stile di vita alternativo, allegro e conviviale in un ambiente “folkloristico” (tovaglie a quadretti, fiaschi di vino, oste sopra le righe, etc).

Gli avventori ritrovavano in quei luoghi il carattere domestico dell’italianità. Il modo naturale che gli Italiani all’estero avevano per rimanere legati alle proprie origini diverrà in poco tempo il nostro “marchio di fabbrica”; e l’italian style fu via via sempre più apprezzato in tutto il mondo.

Essi non solo sono riusciti ad integrarsi e ad affermare il proprio modello culturale, ma spesso hanno ribaltato il loro status sociale proprio grazie alla pasta, alla pizza, al mangiar italiano, al senso di casa, e a tutti gli altri simboli che i 26 milioni di nostri emigrati in giro per il mondo portarono con sé, contribuendo all’unità nazionale tanto quanto (o più?) gli Italiani in Italia.

Agli Italiani all’estero va infatti riconosciuto il grande merito  di aver contribuito a creare una “cucina italiana”, riconosciuta a livello mondiale: i calabresi, piemontesi, genovesi, veneti, siciliani che emigrarono a partire dal 1860, non portarono un’identità nazionale condivisa e riconosciuta, che acquisirono, invece, durante il processo migratorio. Portarono, però, la pasta, che presto divenne simbolo di unità nazionale, una vera e propria bandiera sotto cui l’Italia si è fatta avanti nel mondo e che ha di fatto appianato le differenze regionali e le opposizioni storiche nord-sud.

Con la pasta ritorna uno dei leitmotiv degli Italiani all’estero: la caratteristica tutta nostrana di “fare casa”, di intendere la cucina come un momento intimo, che richiama gli affetti più profondi.

Gli Italiani all’estero hanno saputo ribaltare ogni stereotipo mostrando grande iniziativa imprenditoriale, da mangiamaccheroni a protagonisti assoluti dello stile alimentare più affermato al mondo e hanno saputo creare un florido mercato partendo dalle proprie esigenze.

In risposta alla crescente domanda di pasta, olio d’oliva, salumi, formaggi, etc., aumentò in breve tempo il numero di importatori e produttori locali di beni alimentari italiani e proliferarono i banchi di frutta e verdura, le macellerie, le pescherie, i panifici e altre rivendite alimentari.

In America, i quartieri in cui vivevano gli Italiani cambiarono fisionomia: così, ad esempio, il Lower est Side, nella zona italiana di Manhattan, apparirà come uno dei tanti vicoli di una qualsiasi città del belpaese in cui vi sia un mercato all’aperto e una naturale propensione all’espansività.

Non ci volle molto che le botteghe, i ristoranti, le pizzerie cominciassero ad essere frequentati anche dai residenti locali e l’italian style divenne diffusa fonte di reddito per i nostri compaesani emigrati.

Giusto per fare un esempio della capacità di fare buziness degli Italiani all’estero, è il caso di citare il piacentino Ettore Boiardi, apprendista cuoco che, appena ventenne, si trasferì negli Stati Uniti. Dopo aver lavorato per alcuni anni per i ristoranti di alberghi prestigiosi, apre a Cleveland il suo ristorante che, in poco tempo, ottenne talmente tanto successo da iniziare a preparare porzioni da asporto. Da lì il passo fu breve: con il brand Chef Boyardee, storpiando il nome affinché venisse correttamente pronunciato dagli Americani, Boiardi inaugura una fabbrica per la produzione di cibo italiano in scatola. Basta aprire una lattina, scaldare ed ecco pronto un buon piatto di pasta al sugo fumante. Ad oggi l’azienda è una multinazionale e produce lasagne, ravioli, spaghetti: più di ottanta prodotti, tutti in scatola. Un grande imprenditore a cui gli americani sono grati: gli hanno persino dedicato una statua!

Probabilmente ci viene da storcere il naso di fronte all’idea che la nostra cucina  venga rappresentata da una scatoletta di ravioli al sugo, ma gli Italiani all’estero, usciti dalle Little Italies, si sono lasciati alle spalle gli eventi legati alla malavita organizzata che aveva per decenni ottenuto le prime pagine dei quotidiani stranieri, gli stereotipi si sono edulcorati e, nel bene e nel male, la creolizzazione della nostra cucina, frutto della commistione e del mescolamento di diverse culture, è da considerarsi come un fenomeno positivo che ha favorito l’integrazione dei nostri migranti.

Questo mescolamento ha portato anche alla “creazione” di nuovi piatti, “rivisitazioni” delle nostre ricette che qui in Italia guardiamo con sospetto, per usare un eufemismo: pensiamo agli Spaghetti with Meatballs, gli Spaghetti Bolognese, le Fettuccine Alfredo, il vitello alla parmigiana, la carbonara americana, alla maniera di Ugo Tognazzi, con panna e brandy, le bruschette all’aglio…

Gli Italiani che oggi risiedono all’estero non temono più discriminazioni forti come quelle che hanno subìto i nostri avi fuggiti dalla guerra e dalla miseria. Se per certo le motivazioni per cui si decide di emigrare sono diverse, così come è diversa anche l’accoglienza che riceviamo in un paese straniero; gli emigranti di ieri e di oggi sono accomunati dalla nostalgia di casa, difficile da placare, quando ci si lascia alle spalle un pezzo della propria vita; e tuttora il cibo è un fortissimo lenitivo.

Gli Italiani all’estero, oggi, si ritrovano, consapevoli o meno, a fare da ambasciatori della cucina italiana. E’ auspicabile che, forti del riconoscimento di cui gode la nostra tradizione culinaria, contribuiscano sempre più a far conoscere le nostre cucine regionali, cercando di preservare le peculiarità dei nostri cibi, dei nostri luoghi così speciali e apprezzati in Italia e nel mondo intero.

Bibliografia:

La Cecla F., La pasta e la pizza, Bologna, Il Mulino, 1998
La Cecla F., Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Bari, Economica Laterza, 2009
Motta G., I tempi e i luoghi del cibo, Roma, Nuova Cultura, 2016
Stella G. A., L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Rizzoli, 2002
Teti. V., Il colore del cibo, Roma, Meltemi Editore, 1999
Vecoli R. J., Negli Stati Uniti, in Storia dell’emigrazione italiana – Arrivi, Roma, Donzelli Editore, 2002
Fonti Web:
Pravettoni R., Il cibo come elemento di identità culturale nel processo migratorio http://www.slowfoodcorridonia.it/pdf/tesi_pravettoni.pdf
Fonti iconografiche:
Persona con la valigia: http://www.toscanaoggi.it/Italia/Per-uno-straniero-che-arriva-tre-italiani-emigrano-in-cerca-di-lavoro
Italiani a Manhattan https://en.wikipedia.org/wiki/Detroit_Publishing_Company
Ristorante italiano Scottis: http://cincinnatirefined.com/eat-drink/scottis-italian-restaurant-downtown-cincinnati#photo-20
Chef Boiardi: http://www.chefboyardee.com/history/

Partecipano come contributors:
Annalena de Bortoli, Bolinho Italiano dal Brasile
Ines Di Lelio: la vera stora delle Fettuccine Alfredo (nei commenti a questo articolo)

3 commenti

  1. STORIA DI ALFREDO DI LELIO, CREATORE DELLE “FETTUCCINE ALL’ALFREDO” (“FETTUCCINE ALFREDO”), E DELLA SUA TRADIZIONE FAMILIARE PRESSO IL RISTORANTE “IL VERO ALFREDO” (“ALFREDO DI ROMA”) IN PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE A ROMA
    Con riferimento al Vostro articolo ho il piacere di raccontarVi la storia di mio nonno Alfredo Di Lelio, inventore delle note “fettuccine all’Alfredo” (“Fettuccine Alfredo”).
    Alfredo Di Lelio, nato nel settembre del 1883 a Roma in Vicolo di Santa Maria in Trastevere, cominciò a lavorare fin da ragazzo nella piccola trattoria aperta da sua madre Angelina in Piazza Rosa, un piccolo slargo (scomparso intorno al 1910) che esisteva prima della costruzione della Galleria Colonna (ora Galleria Sordi).
    Il 1908 fu un anno indimenticabile per Alfredo Di Lelio: nacque, infatti, suo figlio Armando e videro contemporaneamente la luce in tale trattoria di Piazza Rosa le sue “fettuccine”, divenute poi famose in tutto il mondo. Questa trattoria è “the birthplace of fettuccine all’Alfredo”.
    Alfredo Di Lelio inventò le sue “fettuccine” per dare un ricostituente naturale, a base di burro e parmigiano, a sua moglie (e mia nonna) Ines, prostrata in seguito al parto del suo primogenito (mio padre Armando). Il piatto delle “fettuccine” fu un successo familiare prima ancora di diventare il piatto che rese noto e popolare Alfredo Di Lelio, personaggio con “i baffi all’Umberto” ed i calli alle mani a forza di mischiare le sue “fettuccine” davanti ai clienti sempre più numerosi.
    Nel 1914, a seguito della chiusura di detta trattoria per la scomparsa di Piazza Rosa dovuta alla costruzione della Galleria Colonna, Alfredo Di Lelio decise di trasferirsi in un locale in una via del centro di Roma, ove aprì il suo primo ristorante che gestì fino al 1943, per poi cedere l’attività a terzi estranei alla sua famiglia.
    Ma l’assenza dalla scena gastronomica di Alfredo Di Lelio fu del tutto transitoria. Infatti nel 1950 riprese il controllo della sua tradizione familiare ed aprì, insieme al figlio Armando, il ristorante “Il Vero Alfredo” (noto all’estero anche come “Alfredo di Roma”) in Piazza Augusto Imperatore n.30 (cfr. il sito web di Il Vero Alfredo).
    Con l’avvio del nuovo ristorante Alfredo Di Lelio ottenne un forte successo di pubblico e di clienti negli anni della “dolce vita”. Successo, che, tuttora, richiama nel ristorante un flusso continuo di turisti da ogni parte del mondo per assaggiare le famose “fettuccine all’Alfredo” al doppio burro da me servite, con l’impegno di continuare nel tempo la tradizione familiare dei miei cari maestri, nonno Alfredo, mio padre Armando e mio fratello Alfredo. In particolare le fettuccine sono servite ai clienti con 2 “posate d’oro”: una forchetta ed un cucchiaio d’oro regalati nel 1927 ad Alfredo dai due noti attori americani M. Pickford e D. Fairbanks (in segno di gratitudine per l’ospitalità).
    Un aneddoto della vita di mio nonno. Alfredo fu un grande amico di Ettore Petrolini, che conobbe nei primi anni del 1900 in un incontro tra ragazzi del quartiere Trastevere (tra cui mio nonno) e ragazzi del Quartiere Monti (tra cui Petrolini). Fu proprio Petrolini che un giorno, già attore famoso, andando a trovare l’amico Alfredo, gli disse che lui era un “attore” della cucina romana nel mondo e gli consigliò di attaccare alle pareti del ristorante le sue foto con i noti personaggi soprattutto dello spettacolo, del cinema e della cultura in genere che erano ospiti di “Alfredo”. Anche ciò fa parte del cuore della bella tradizione di famiglia che continuo a rendere sempre viva con affetto ed entusiasmo.
    Desidero precisare che altri ristoranti “Alfredo” a Roma non appartengono e sono fuori dal mio brand di famiglia.
    Vi informo che il Ristorante “Il Vero Alfredo” è presente nell’Albo dei “Negozi Storici di Eccellenza – sezione Attività Storiche di Eccellenza” del Comune di Roma Capitale.
    Grata per la Vostra attenzione ed ospitalità nel Vostro interessante blog, cordiali saluti
    Ines Di Lelio

    1. Gentile signora Ines, grazie di cuore per aver condiviso con noi questa bellissima storia: contributi come il Suo danno un senso ancora più alto al nostro progetto!

  2. che bella questa storia!! sapere che questo doppio burro è nato come ricostituente strappa un sorriso e pure una lacrimuccia! Quante storie non conosco e quante invece ne vorrei conoscere!! Grazie signora Ines!

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