Il Coniglio in umido

Pubblicazione: 17 Ottobre 2016

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Giornata Nazionale del Coniglio in umido

La preparazione della carne di coniglio fa parte della tradizione italiana, ma sulle tavole dei nostri giorni non è una presenza che si trova regolarmente, a favore di altre carni bianche più comuni come pollo e tacchino. Questo è un peccato, perché è molto magra e povera di colesterolo e sodio oltre che digeribile e leggera: ricca di potassio, ferro e calcio, è ottima nell’alimentazione dei bambini.

Originario dell’Africa, il coniglio venne successivamente introdotto in Francia e in Italia. Il nome (dal latino cuniculus) fu coniato da Catullo che si ispirò all’abilità dell’animale nello scavare tane fatte da grotte e cunicoli. Inoltre è da sempre considerato il simbolo della fecondità: una coniglia femmina può dare alla luce fino a 90 cuccioli all’anno ed anche per questo motivo, sotto l’Impero Romano, questo animale assunse un’importanza notevole e cominciò così ad essere allevato a fini alimentari.

L’allevamento degli animali domestici inizia proprio nelle aie familiari, curate dalle donne; al coniglio era riservato meno spazio e attenzione rispetto, ad esempio, ai bipedi da cortile, perché non era considerato un buon cibo e spesso veniva regalato a chi acquistava altra carne.
Il suo destino sulle tavole italiane è, quindi, quello di essere sempre una seconda scelta: prova ne è che è forte di una tradizione culinaria solo in alcune zone “povere” (la Liguria su tutte, ma anche alcune parti della Sicilia montana), dove mancava la possibilità di allevare animali ritenuti di maggior pregio, perché fonte di un più variegato utilizzo, come il cappone, l’anatra e la gallina.

Questo spiega anche il ritardo degli allevamenti in Italia: nel resto d’Europa, i primi allevamenti di coniglio sono attestati sin dal Medioevo e nel XVIII secolo ormai si parla con disinvoltura di diverse “razze”, molte delle quali fatte crescere nei monasteri.
E di nuovo non è un caso che il grande impulso a questa attività fu causato, nel nostro Paese, dalle ristrettezze alimentari della Grande Guerra: le razze più pregiate servivano per la guerra e a sfamare i soldati al fronte, mentre chi restava a casa si trovò giocoforza costretto a fare i conti con questo animale, mai veramente amato fino in fondo.

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Gli allevamenti, però, si rivelarono estremamente produttivi e poco costosi: a differenza dei polli, i conigli non avevano un’alimentazione competitiva con quella dell’uomo e si accontentavano dell’erba, pure quella meno pregiata. In cambio, erano molto prolifici, assicurando nidiate numerose ogni due mesi, contro la covata annuale delle galline.
Non va dimenticato anche l’utilizzo della pelle, complemento del guardaroba di tante signore del secolo scorso: “le pelli dei conigli erano una risorsa non trascurabile, venivano raccolte e vendute al pellaio, altrimenti potevano essere conciate in proprio, con allume di rocca e sale e quindi utilizzate per confezioni rigorosamente casalinghe di pellicciotti di varie dimensioni e fogge. Una pennellata glam che colorò le nostre aie, dalle quali scaturivano risorse non solo per imbandire le tavole, ma anche per agghindarsi per le feste” (Cianti, L., Gli Animali di Corte, in AA.VV., La Cucina dell’Aia, Accademia Italiana della Cucina, 2009, p. 118).
Fino alla metà del Novecento, gli animali da cortile rappresentavano un valore e un simbolo di benessere da una parte e di approvvigionamento naturale dall’altra. Solo intorno al 1950, con la diffusione dell’allevamento in batteria, si riduce il prezzo della carne di tali animali e diventa cibo di massa.

Il coniglio si distingue in due diverse varietà: quello domestico, definito “coniglio da carne”, che comprende diverse razze con carni magre e sode, e quello selvatico, molto più piccolo, che spesso non raggiunge il chilogrammo di peso. Il coniglio selvatico è diffuso in Francia, Spagna, nei paesi dell’Europa centrale e nelle isole mediterranee. In Australia è stato introdotto con (troppo) successo e oggi tende a infestare l’ambiente. Dal punto di vista culinario le carni del coniglio selvatico sono da considerare “nere”, per cui valgono tutte le indicazioni e le raccomandazioni della lepre. Per quanto riguarda i tagli, essi non differiscono da quelli del coniglio domestico.
La lepre, invece, si distingue dal coniglio selvatico per aver orecchie molto sviluppate e zampe posteriori molto più lunghe delle anteriori e perché vive solitaria (massimo in coppia) in terreno aperto. La caccia e la coltivazione dei terreni ha reso le lepri più rare e per tale ragione vengono importate dai paesi dell’Europa dell’Est, dall’Argentina o allevate.

Il momento migliore per acquistare e consumare il coniglio è l’inverno: infatti, in questa stagione, i conigli sono nell’età ottimale, né troppo giovani, né troppo vecchi.
Generalmente si trova in vendita intero o a pezzi in macelleria. La parte anteriore (il dorso e le spalle) è la meno carnosa; lungo il costato infatti non c’è molta polpa e per tale motivo queste parti sono adatte ad essere cotte in umido. La seconda metà, posteriore, è composta dall’ultima parte del dorso e dalle cosce: si presta alle cotture arrosto, così come la sella e la lombata.
La lombata è la parte più pregiata e polposa e, se disossata, è ottima anche farcita.
Prima di cucinare il coniglio è necessario frollare la sua carne in un luogo fresco e asciutto per almeno tre giorni. Successivamente dev’essere lavato con cura, eliminando eventuali peli residui.
Se il sapore del coniglio viene ritenuto un po’ “selvatico” è anche possibile, prima della cottura, marinare le carni in acqua e aceto bianco, per toglierne il caratteristico odore e ammorbidirlo.

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Nella specifica preparazione del Coniglio in umido, non vi sono tracce nei ricettari antichi, ma più che una ricetta non è difficile immaginare che questa modalità di cottura sia nata piuttosto come una necessità: nei primi periodi in cui l’animale veniva allevato, erano d’uso frollature velocissime e, di conseguenza, cotture lentissime, in pentole di coccio.
Un’altra importante motivazione per la cottura dello stesso in umido è perché, se cotto al forno, le sue carni magre rischierebbero di diventare troppo secche. È necessario insaporirle con spezie e aromi, visto il suo sapore delicato e tagliarlo a pezzi regolari, così che sia avvolto bene dagli aromi e ne benefici.
Per questa pietanza in umido è previsto l’uso di ogni parte dell’animale. La cottura prolungata e delicata, grazie alla presenza della componente liquida, permetterà di ottenere una carne soda ma morbida e succosa; avviene su fuoco molto moderato, che permette alla salsa di pomodoro di sobbollire e di cuocere con delicatezza la carne. Per evitare che la salsa asciughi troppo, ci aiutiamo con del brodo vegetale, un sapore che non invade e che lascia spazio ai profumi di erbe mediterranee.
E’ consigliabile la cottura in un tegame di coccio: in linea generale questo tipo di strumento è perfetto per tutte le lunghe cotture, perché il calore viene condotto all’alimento in modo più lento e diffuso. La terracotta funziona come un isolante, si scalda molto lentamente e altrettanto lentamente cede il calore che ha assorbito. Il calore dunque si diffonde uniformemente dal fondo alle pareti così da cuocere il cibo in maniera più graduale ed omogenea rispetto agli altri tipi di materiali. E’ importante usare uno spandifiamma, perché il fuoco diretto sul tegame a lungo andare potrebbe creare rotture; ma il tempo che si attende per far cuocere il piatto sarà assolutamente ricompensato dal sapore e dalla morbidezza ottenuti.

Variazioni del Coniglio in umido classico sono soprattutto di carattere regionale:

– il coniglio in fricassea, che viene ricoperto con una salsa a base di uova;
– il coniglio all’ischitana, dove la carne incontra il pomodoro fresco e le note aromatiche del basilico;
– il coniglio alla ligure, che prevede l’utilizzo di olive locali ad insaporire e ad aiutare a limitare quel sapore un po’ selvatico caratteristico;
– il coniglio alla cacciatora, per il quale esistono più versioni, che differiscono l’una dall’altra per pochi ingredienti.

Coniglio in umido

Ingredienti per 6 persone:
1 coniglio tagliato a pezzi
500 ml di brodo vegetale (sedano, carote, cipolle)
½ bicchiere di olio extra vergine di oliva
½ bicchiere di vino bianco
1 rametto di rosmarino
1 spicchio di aglio
2 foglie di alloro
la buccia di mezzo limone non trattato
sale e pepe q.b.
500 ml di passata di pomodoro

Procedimento
Tagliare il coniglio a piccoli pezzi.
Mettere i pezzi in una ciotola e aggiungere l’ olio, il vino e un trito di rosmarino, aglio, buccia di limone, sale e pepe. Lasciare macerare per una notte intera in frigo.
Togliere dal frigo 2 ore prima di iniziare la cottura.
In una pentola di coccio versare il liquido della marinata e i pezzi di coniglio, facendoli rosolare fino a quando il vino non sfumerà.
Unire poi la passata, l’alloro e 300 ml di brodo, portare ad ebollizione e lasciare cuocere per almeno 2 ore (dipenderà dalla grossezza dei pezzi del coniglio) a fuoco molto lento, aggiungendo ancora del brodo caldo se il coniglio si dovesse asciugare troppo.
Nelle tavole venete, si serve con della polenta gialla tenuta morbida.

Fonti:
La cucina dell’aia. Accademia Italiana della cucina

La cucina dell’aia


www.wikipedia.it
Partecipano come contributors:
Manuela Valentini, Coniglio in umido per Aifb

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