La cima

Pubblicazione: 18 Febbraio 2016

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Giornata Nazionale della Cima alla Genovese

Ambasciatrice Silvia Leoncini per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

Parlare di cima genovese equivale a scomodare un mostro sacro della cucina italiana: è impegnativo sia dal punto di vista culinario che da quello del rapporto con la tradizione e con la geografia stessa dei luoghi.
Ad una semplice ricerca in rete per la ricetta della Cima, troverete tante versioni, connotate da infinite sfumature per un piatto che è possibile rintracciare nella tradizione della cucina popolate da La Spezia a Ventimiglia, lungo tutta la fascia ligure. Dunque non solo Genovese. Nella provincia di Cuneo si confeziona un piatto simile alla cima genovese –chiamato sacócia, tasca, preparato però con uno stallo di carne diverso.
Tutte queste varianti, come in ogni tradizione che si rispetti, sono a volte “proprie” di ciascuna famiglia, mantengono in comune alcuni ingredienti, ritenuti fondamentali per questa ricetta: lo stallo di carne di vitello da utilizzare, la costante presenza di uova, pinoli e maggiorana.
Ma che cos’è, tecnicamente, la Cima Genovese?
E’ una tasca di carne di vitello farcita, cucita e poi lessata.
Lo stallo utilizzato è uno dei più poveri: si tratta di una pelle (in gergo così chiamata dagli addetti), cucita dalle massaie a mo’ di tasca, farcita e lessata.
Chi conosce bene l’anatomia del bovino la definisce come “la parte di ventre muscolare in contatto con la fascia che determina il piano dove finisce la loggia”.
Il rischio che la carne risulti dura a fine cottura, o che secchi o si laceri nella pentola è alto, ma essendo uno stallo poco pregiato, nobilitato dal ripieno e dalla cura nella confezione, e poi elevato a piatto forte del pranzo della domenica, erano importanti tutte le attenzioni del caso, per far sì che il risultato fosse dei migliori. Nella tradizione popolare esistono addirittura delle filastrocche, da recitare affinché la cima non ‘scoppi’ durante la bollitura, la sua carne resti morbida e tutti i demoni siano allontanati dalla cucina mentre si cuoce questa preziosa tasca ripiena.

Il grande Fabrizio De André ha scritto perfino una canzone, dedicata alla Cima e a tutte le credenze e superstizioni che circondano da sempre, come in un rituale, la sua preparazione.
Si intitola appunto, A CIMMA, e dice così:

Ti t’adesciàe ‘nsce l’èndegu du matin
ch’à luxe a l’à ‘n pè ‘n tera e l’àtru in mà
Ti sveglierai sull’indaco del mattino
quando la luce ha un piede in terra e l’ altro in mare
ti t’ammiàe a ou spègiu dà ruzà
ti mettiàe ou brùgu rèdennu’nte ‘n cantùn
ti guarderai allo specchio di un tegamino
metterai la scopa dritta in un angolo
che se d’à cappa a sgùggia ‘n cuxin-a stria
a xeùa de cuntà ‘e pàgge che ghe sùn
‘a cimma a l’è za pinn-a a l’è za cùxia
che se dalla cappa scivola in cucina la strega
a forza di contare le paglie che ci sono
la cima è già piena è già cucita
Cè serèn tèra scùa
carne tènia nu fàte nèigra
nu turnà dùa
Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
Bell’oueggè strapunta de tùttu bun
prima de battezàlu ‘ntou prebuggiun
Bel guanciale materasso di ogni ben di Dio
prima di battezzarla nelle erbe aromatiche
cun dui aguggiuìn dritu ‘n pùnta de pè
da sùrvia ‘n zù fitu ti ‘a punziggè
àia de lùn-a vègia de ciaèu de nègia
con due grossi aghi dritti in punta di piedi
da sopra a sotto svelto la pungerai
aria di luna vecchia di chiarore di nebbia
ch’ou cègu ou pèrde ‘a tèsta l’àse ou sentè
oudù de mà misciòu de pèrsa lègia
cos’àtru fa cos’àtru dàghe a ou cè
che il chierico perde la testa e l’asino il sentiero
odore di mare mescolato a maggiorana leggera
cos’altro fare cos’altro dare al cielo
Cè serèn tèra scùa
carne tènia nu fàte nèigra
Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
nu turnà dùa
e ‘nt’ou nùme de Maria
non ritornare dura
e nel nome di Maria
tùtti diài da sta pùgnatta
anène via
tutti i diavoli da questa pentola
andate via
Poi vegnan a pigiàtela i càmè
te lascian tùttu ou fùmmu d’ou toèu mestè
Poi vengono a prendertela i camerieri
ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere
tucca a ou fantin à prima coutelà
mangè mangè nu sèi chi ve mangià
tocca allo scapolo la prima coltellata
mangiate mangiate non sapete chi vi mangerà
Cè serèn tèra scùa
carne tènia nu fàte nèigra
nu turnà dùa
e ‘nt’ou nùme de Maria
tùtti diài da sta pùgnatta
anène via.
Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via

Dopo tutti questi riti propiziatori la domanda è: colui che vuole prepararla, che cosa dovrà cercare?
A Genova e in Liguria, in macelleria si chiede “una pelle” o “una pelletta” se si vuole una cima più piccola. Si può anche specificare “che sia tenera”… come se il macellaio potesse sapere esattamente come sarà una volta cotta! Qualunque difetto del piatto finito sarà comunque imputato a lui, col nostro diritto inalienabile al mugugno e potrebbe divenire oggetto di continui rimbrotti, a colpi di “Mi raccomando, non come quella volta che me l’ha venduta dura come una suola!”
Il peso della cima si definisce dal numero di uova che andranno nel ripieno. Il macellaio genovese lo sa e quando gli ordinerete una pelletta, lui si aspetterà una risposta che non superi le 4 unità, perché per un numero superiore sarà più indicato chiedere una pelle.
A questo punto vi preparerà una pelle larga, che andrà piegata a metà e cucita su 2 lati. Poi la riempirete per cucirla alla fine sul terzo lato, sigillandola.

Da persone accorte, in occasione delle feste comandate prenotate in anticipo la vostra cima, per non rimanere senza: per Natale i macellai liguri accettano prenotazioni già a novembre.
Se non siete in Liguria, molti macellai vi potrebbero rispondere in maniera sbrigativa che “non ne hanno” ed è molto probabile che vi preparino una fetta di carne ben battuta e spianata, che poi voi cucirete e farcirete con ottimi risultati.
Vi chiederanno: “Per quante persone?” senza sapere che a Genova, una persona = un uovo… Ma su questo aspetto potete stare tranquilli: più o meno le dimensioni saranno quelle della cima che vi darebbero a Genova.
Non sarà lo stesso stallo, ma nessuno se ne lamenterà e, comunque non c’è rimedio per questo: al di fuori della Liguria la “pelletta” non è conosciuta.
Di che cosa riempirete la vostra cima?
Uova, maggiorana, pinoli e formaggio Parmigiano Reggiano grattugiato sono la base imprescindibile, sulla quale si innestano alcune verdure tra cui non devono mancare piselli e carote e, se volete qualche foglia di verde, ad esempio la scarola.
Nel ripieno classico, compare un po’ di carne secondo regole ben precise.
La ricetta canonica prevede cervello e filoni, ossia midollo spinale, che vengono prima passati in padella col burro.
Ricordo ancora quando nonna e mamma pulivano i ‘filoni’ dai coaguli residui di sangue che a volte erano presenti (va fatto con molta precisione per non rovinare il sapore del ripieno con quello del sangue rappreso), li passavano al burro insieme al cervello e li tritavano nel ripieno.
Io ero ancora molto piccola e non ne amavo per nulla l’odore e l’aspetto. Ma al momento di andare in tavola me ne dimenticavo e mangiavo la cima con grande appetito! Mia madre smise di inserirli nella cima solo nel periodo in cui ci furono casi conclamati del “morbo della mucca pazza”, sostituendoli con un mix di carne e prosciutto cotto tritati e passati in poco burro.
Ma veniamo alla ricetta.

cima alla genovese

INGREDIENTI per 4-6 persone
1 ‘pelle’ di vitello, da ripiegare e cucire tutto intorno, oppure un pezzo di vitello da far aprire e battere dal macellaio
4-6 uova: ovvero tante quanti sono i commensali (è una buona regola)
1 pizzico di maggiorana tritata
1 cucchiaio di pinoli
sale, pepe q.b.
1 manciata di piselli crudi (freschi o surgelati) e 1 pezzetto di carota, tagliata a piccolissimi cubetti (servono per conferire colore al ripieno)
2 cucchiai di Parmigiano Reggiano grattugiato
1 pezzetto di cervello di vitello e 1 paio di filoni, ossia di ‘fili’ di midollo spinale di vitello, rosolati nel burro e tritati
oppure, in alternativa alla versione classica:
1 manciata di carne di vitello passata al burro e poi tritata con un paio di fette di prosciutto cotto

PROCEDIMENTO
1. Mettete a bollire l’acqua con carota, sedano, cipolla e 1 presa di sale grosso, per creare un abbondante brodo vegetale nel quale la cima dovrà cuocere ad immersione totale
2. Mescolate in una terrina le uova al parmigiano e alla maggiorana
3. Aggiungete cervello e filoni passati al burro e tritati oppure carne e prosciutto trattati allo stesso modo
4. Aggiungete i piselli crudi (cuoceranno insieme alla cima), la carota cruda a cubettini, i pinoli interi: alcuni tritano i pinoli insieme alla carne
4. Salate, e pepate: occorre assaggiare (anche se il ripieno di uovo crudo non è una delle cose più meravigliose da gustare) perché non c’è niente di peggio di una cima insipida.
5. Chiudete bene con ago e spago da arrosto la bocca della cima, e poi immergerla LENTAMENTE nel brodo vegetale, tenendola per un angolo e facendola ruotare
6. Pungetela con la forchetta su una delle due facce appena sarà gonfia in modo uniforme (bastano 2 forchettate) e fatela bollire col coperchio per almeno 45 minuti, dopo di che si può provare a pungerla ancora con la forchetta: se essa entra senza fatica ovviamente si può spegnere sotto la pentola.
Infatti se la carne è di buona qualità e la cima è da 5-6 uova al massimo, ci vorrà meno di un’ora perché sia cotta.
7. A cottura ultimata, spegnete e lasciatela riposare ancora un po’ nel brodo, poi estraetela, mettetela in un piatto, copritela con tagliere e ponetevi sopra un peso, in modo da aiutare la fuoriuscita del brodo residuo.
La cima va affettata quando è ormai raffreddata, perché le operazioni di taglio ne saranno agevolare.
Si serve fredda, ma se volete esser sicuri che la carne sia morbida, presentatela tiepida: dovrete scaldarla al vapore, ossia ponendola a fette su un piatto, coprendola e posizionando il piatto sopra una pentola in ebollizione. Non scaldatela nel forno: si asciuga!
Non scaldatela a bagno nel brodo: il ripieno si rammollisce e scappa via dalle fette.

La cima alla genovese non è una preparazione difficile, ma è indispensabile seguire alcuni passaggi importanti:
1.
– si piega la pelle a metà
– si cuce su due lati lasciando aperto il terzo
– si tiene in piedi appoggiandola su un piatto concavo
– si riempie con cucchiaiate di ripieno per meno della metà, perché cuocendo, il ripieno aumenterà molto il volume e la carne potrebbe lacerarsi.
– si chiude cucendo l’ultimo lato rimasto aperto: l’ideale è avere tre o anche quattro mani a disposizione e condividere l’esperienza in famiglia.
2. Quando si tuffa nel brodo bollente occorre introdurla lentamente, tenendola per un angolo, dando così al ripieno il tempo di gonfiarsi lentamente. Questo aiuterà ad evitare che la cima si laceri.
3. Appena sarà ben gonfia, andrà punta con la forchetta: il vapore e i gas che si formano all’interno devono avere qualche punto d’uscita.

Partecipano come contributors:

Walter Zanirato, Cima alla genovese    

Monica Costa, Cima alla genovese… di casa nostra!

Laura Adani, Cima alla Genovese

9 commenti

  1. Ciao Silvia, sono qui alle 9 a legger il tuo articolo e mi fai già venire appetito… grazie per i segreti, le dritte e il tocco di poesia racchiusi nel tuo racconto. La Cima Genovese è uno dei miei piatti liguri preferiti, da oggi chi vorrà cimentarsi nella preparazione di questa pietanza sarà più sicuro di ottenere un buon risultato… buona giornata dani

  2. Dire che hai parlato e spiegato questa ricetta a 360° è dire poco. Non sapevo che anche in Piemonte ne esistesse una variante. Bellissimo post Silvia.

  3. Non credo che sarei in grado di farla. Mi sembra di una difficoltà inverosimile e fonte di patema non indifferenti. Adesso ho capito benissimo cosa voleva dire la Vittoria quando si lamentava: “mi è scoppiata la cima”. Io me la sono mangiata con piacere e non ho fatto caso assolutamente al danno, ma per chi la prepara con tante precauzioni, questo è un vero e proprio disastro.
    E comunque, tornando al post, bellissimo. Suggestivo, accattivante: mi ha trascinato intorno alle vostre tavole liguri, mi ha fatto venire voglia di provare una volta almeno. Ma so che non lo farò. Non da sola almeno.
    Bravissima Silvia, un post da incorniciare.
    Pat

  4. Ho sempre amato quella canzone di De André e mi ha sempre fatto venire la curiosità di questo piatto. Prima o poi lo assaggerò 😉
    “mangè mangè nu sèi chi ve mangià”

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