La cucina dell’antica Roma

Pubblicazione: 21/04/2016

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Giornata Nazionale della Cucina dell’Antica Roma

Ambasciatrice Valentina De Felice per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

“Come antipasto cinghiale lucano:
era stato cacciato al levarsi dello scirocco,
così diceva il padrone di casa;
A far da contorno ravanelli piccanti, lattuga, radici, cose da stuzzicare
Lo stomaco svogliato, raperonzoli, salsa di pesce e vino di Coo.
Sparecchiata questa portata,
Un valletto in veste succinta
Deterse con uno straccio color porpora
Il piano d’acero della mensa…
…. Mangiavamo uccelli, frutti di mare, pesci,
Che nascondevano un gusto diverso da quello consueto…
… come quando mi furono serviti
Filetti di rombo e di pesce passero
Di un sapore per me inusitato…
… Viene allora servita, lunga distesa nel piatto,
Una murena, guarnita di gamberetti in umido.
E subito l’anfitrione: “E’ stata presa gravida,
Perchè una volta deposte le uova,
La sua carne sarebbe peggiorata”.
(Orazio, Satire II 8, Mario Ramous, Garzanti, 1987)

Con queste parole tratte dalle Satire II 8, il poeta Orazio descriveva un pranzo per una occasione importante, poco prima della fine del I secolo a.C.
All’epoca di Cesare e di Augusto, infatti, le mense si piegavano sotto il peso delle leccornie disposte su di esse.

Divenuti in poco più di 500 anni una potenza mondiale, i Romani erano signori del mondo anche e soprattutto a tavola. Roma divenne perciò il ventre ingordo del mondo e da tutti i territori facenti parte dell’impero romano si facevano giungere a Roma un numero imprecisato di navi da trasporto cariche di prodotti alimentari provenienti dai territori fino ad allora conosciuti.

Fino a qualche secolo prima, il modo di mangiare dei Romani poteva essere definito frugale: il piatto principale era costituito dal puls, un pappone di cereali cotto nell’olio a mo di focaccia, che si consumava insieme alle uova, onnipresenti sulle loro tavole e una crema di latte inacidita (ciò che oggi conosciamo comunemente con il nome di quark) mentre il miele era l’unico dolcificante conosciuto.

Il pasto di un contadino si differenziava dal pasto di un latifondista solo per la quantità di carne di maiale o di pollo presente a tavola.

Altra consuetudine alimentare degli antichi Romani era quella di preparare quante più verdure possibile. Erano sempre presenti a tavola piselli, rape, cipolle ed aglio e consuetudine era il preparare un onnipresente passato di spinaci, e le verdure erano l’incubo dei bambini di oggi come allora!

Proprio a proposito di questa massiccia presenza di verdure e pasticci di verdure, Plauto scrive:
Una montagna di cibo, insalata assiepata con altre erbe ed insaporita con coriandolo, finocchio, agli e prezzemolo, e inoltre acetosella, cavolo, bietola e porro. Si univa il tutto a senape pestata, una cosa orribilmente benefica, tutto questo però è più adatto ai buoi che agli uomini“.

Negli scritti di Plauto e Orazio, oltre a conoscere i nomi di quali verdure ed alimenti in generale gli antichi romani consumassero, si apprende anche dell’orrenda abitudine di mescolare tutto insieme, cattiva usanza a cui non sfuggivano nemmeno i cuochi del tempo.

Fu solo con l’avvento dei Greci in Sicilia che le mense e i banchetti dei Romani cambiarono. Addirittura furono inviati degli “ispettori” in Grecia per informarsi sugli usi e i costumi di questo nuovo popolo.
Al rientro la delegazione riportò notizie ed informazioni ma soprattutto del personale.
Divenne prestigioso per ogni latifondista romano avere in casa un cuoco greco, tanto che divenne proprio un vero segno distintivo per i ceti sociali di rango più alto.

Non tutti accolsero bene l’entrata dei cuochi e della cucina dei Greci nell’Antica Roma, tant’è che addirittura Catone il Censore scriveva nel suo De Re Rustica:
Non è da noi uno Stato in cui un pesce di mare vale più di un’oca“.

Ovviamente ai tempi di Augusto la maggior parte della popolazione rientrava tra i poveri, e non tutti potevano usufruire della presenza di un cuoco greco in casa. Lo stesso ceto medio era dipendente dalle famiglie più ricche, dando origine alla categoria dei clientes, gli assistiti, e ognuno ritirava la sua spatula giornaliera, ossia un cesto pieno di viveri i cambio dei propri servigi.

Nelle case dei Romani del popolo era proibito accendere fuochi e si mangiava quasi tutto freddo. Per colazione un pezzo di pane imbevuto nel vino, accompagnato con olive, formaggio ed uova. A pranzo formaggi di pecora o di capra, cipolle e raramente un pezzo di arrosto freddo, avanzo delle case dei signori.

Un pasto caldo lo si poteva consumare, occasionalmente ed eccezionalmente in una delle osterie, piccoli locali sul retro dei quali venivano accesi dei fuochi (oggi li chiameremmo barbecues) per la cottura di spiedini di carne o pesce.
Le facciate delle osterie recavano su strada delle teche nelle quali l’oste esponeva i piatti da lui preparati, dopo averli fortemente aromatizzati, per invogliare ed attrarre i passanti a fermarsi e mangiarli. Gli osti guadagnavano soprattutto sul vino che ogni avventore consumava in quantità industriale per smorzare in bocca l’eccesso di aromi utilizzato per “attrarli” olfattivamente. Vino addizionato ad acqua, segno che la furbizia degli osti era presente già all’epoca.

In alcuni graffiti ritrovati a Pompei si legge “Possa tu oste annegare nelle tue bugie, tu che a noi dai dell’acqua mentre tu bevi del buon vino“.

Altra usanza romana era festeggiare con cerimonie e banchetti ogni festa sacra. Si invitava tutta la città e si faceva letteralmente sfoggio delle proprie ricchezze. Il più ricco di tutti, che viene ancora oggi ricordato come simbolo di questo sfarzo sfacciato, era Lucullo.

Generale e console di immensa fama, riportava a Roma da ogni suo campo di battaglia prodotti alimentari nuovi. A lui si deve ad esempio l’introduzione delle ciliegie.

Nel palazzo romano di Lucullo si contavano 12 sale da pranzo, ognuna delle quali dedicata ad un dio. Quando Lucullo informava il proprio maggiordomo di voler banchettare con i propri ospiti nella sala dedicata al dio Apollo, il capo dei cuochi sapeva già quale avrebbe dovuto essere il costo delle portate. Ogni sala aveva il suo equivalente in sesterzi da spendere, per la sala di Apollo si narra che ci volessero 25mila sesterzi, l’equivalente di 10 milioni del vecchio conio, cifra ragguardevole considerato che il numero medio degli ospiti era di nove persone. Già all’epoca di Lucullo infatti si era diffusa l’idea che se un cibo è buono lo si deve pagare caro! E siccome si erano introdotti molti cibi provenienti da lontano, si era imposto il luogo comune che un cibo era tanto più gustoso quanto più lontana era la sua origine o provenienza.
All’epoca dei Romani esisteva già la figura del Gourmet, che era colui il quale non solo era in grado di capire ed apprezzare il valore di quanto gli era stato offerto, ma di riconoscere al primo assaggio la provenienza di quella delizia del palato.
Esisteva inoltre una vera e propria “categoria d’origine, in base alla quale le tartarughe dovevano provenire esclusivamente dall’Arabia, le ostriche dalla Britannia, le melagrane dall’Egitto, il prosciutto dalle Gallie e le verdure dovevano esser spagnole.
Già ai tempi di Giulio Cesare era stata allestita una struttura a pianta quadrata che accoglieva il primo mercato delle specialità gastronomiche, sulle cui facciate e nei cortili interni erano aperti tantissimi piccoli negozi, ognuno dedicato ad un ingrediente, proteggendo i cibi dai raggi del sole coprendoli con pelli di animali.

Poco tempo dopo, a Lucullo si affiancò un altro gaudente del cibo, Marco Gavio Apicio, che divenne ben presto oltre ad un modello di vita per gli antichi romani, anche il bersaglio ideale dei filosofi dell’epoca. Seneca lo accusava addirittura di aver avvelenato una intera epoca con le sue idee perchè i giovani facevano a gara ad iscriversi alla sua scuola di cucina anzichè frequentare le lezioni di filosofia e retorica.

Plinio lo definì “il più grande scialacquatore e crapulone di tutti i tempi“.

Si hanno però poche notizie circa la vita di Apicio, probabilmente nato intorno al 25 a.C. Tutto ciò che si sa di lui ci è arrivato attraverso gli scritti critici sul suo conto da parte di Seneca. Di lui sappiamo che era solito ingrassare i maiali rimpinzandoli di fichi e facendogli bere quantità di mosto dolce così che, alla macellazione, le sue carni e il suo fegato fossero dolci e particolarmente saporite. Fu proprio in quel periodo che il fegato, fino ad allora chiamato ICATUR, fu definito FICATUM, ossia “trattato con i fichi” ed acquisita in tutte le lingue che derivano dal latino, come fegato in italiano, foie in francese e higado in spagnolo. Stesso trattamento Apicio lo dedicava alle lumache.

Apicio ha fatto scrivere due libri a sua firma, uno di cucina generale e l’altro sulle salse, successivamente condensati insieme in un volume unico contenente 478 ricette. La lettura del ricettario di Apicio ha messo i lettori di fronte a due macroscopiche difficoltà: erano completamente assenti le unità di misura e le quantità e molte delle erbe e spezie da lui citate non si trovano ai giorni nostri.

Apicio era un cuoco e come tutti i cuochi dell’epoca, amava stupire, offrire sempre quacosa di insolito, ecco perchè amavano sminuzzare le carni e coprirle di spezie, per poi compattarle in nuove forme. L’imperatore Augusto fece addirittura costruire un busto a memoria del suo cuoco perchè era capace “di mutare un luccio in una carpa e di preparare una carpa in modo che gustandola la si sarebbe detta un pollo”, e questo gli faceva sempre fare bella figura sorprendendo i propri ospiti, che spesso rimanevano a tavola fino a tarda sera cercando di indovinare di che carne si fossero cibati fino a quel momento.

Lo sminuzzare le carni però serviva anche ad una più facile ingestione delle stesse considerando che i romani a tavola sedevano distesi.

Dopo aver letto Apicio abbiamo inoltre appreso che i Romani adoravano “ammazzare” le carni, che erano l’alimento più consumato, annegandole in salse pesanti e molto aromatizzate, che spesso le rendevano indigeribili, forse perchè la carne era meno tenera della nostra e pertanto non era raro il caso in cui la si dovesse prima lessare , come era già consuetudine nell’antica Grecia. O forse il ricorrere a molte spezie era la sola maniera di dare sapidità a carni in assenza del sale.

La carne era l’elemento più importante presente sulle mense conviviali, e mentre il manzo e il vitello erano poco graditi, abbondavano le carni di maiale, i volatili, il cinghiale e l’agnello.

Bibliografia
Orazio, Satire II 8, Mario Ramous, Garzanti, 1987
La Cucina dell’Antica Roma, Hans Peter von Peschke – Werner Feldmann, Guido Tommasi editore 2006
Apicio, L’arte Culinaria, Manuale di gastronomia Classica, con testo latino a fronte a cura di Giulia Carazzali – Bontempi
Foto di copertina: credits http://www.emozioniinviaggio.net/viaggio-nella-roma-antica
Partecipano come contributors:

Silvia Gregori, il Libum di Catone
Lucia Melchiorre, Pollo alla moda dei Parti
Sara Sguerri, Lagane, Ceci e Porri
Donatella Bartolomei, Pane nell’antica Roma
Annarita Rossi, Libum di Catone
Cristina Tiddia, Piselli vitelliani di Apicio
Gabriella Pravato, Un banchetto romano con l’Artolaganus, il pane delle feste
La salvia di Silvia, Ius in pisce elixo

5 commenti

  1. Bell’articolo! Sull’ammazzare le carni di salse pesanti e speziate avanzerei un’ulteriore ipotesi: mancavano i frigoriferi!
    Quindi speziarle e macerarle molto con altri ingredienti coprenti era spesso il solo modo di rendere commestibili porzioni di carne ormai… passatelle!

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