La Lombardia: intervista allo chef Cesare Battisti

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Pubblicazione: 04/05/2017

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Per il Gran Tour d’Italia oggi si parla di cucina lombarda e più precisamente milanese.
Per trattare questo argomento è quasi un obbligo incontrare Cesare Battisti, cuoco del ristorante Ratanà di Milano; luogo che, nel pieno del quartiere Isola, circondato dal parco della Fondazione Catella e dai moderni grattacieli della nuova Milano, parla sia di senso profondo della tradizione e di rispetto dell’ambiente, sia di modernità e di futuro.

Ti definisci uno chef di tradizione, ci spieghi qual è il tuo approccio e la tua visione della cucina?

Sono un cuoco di tradizione, ho sempre fatto cucina tipica milanese. Lavorando all’estero mi sono sempre chiesto perché la cucina di Milano non debba essere famosa come altre cucine di tradizione che abbiamo in Italia; perché sia rimasta un po’ all’oscuro. Solo il risotto è stato sdoganato: Milano ha avuto l’onore di rendere famoso nel mondo il riso, tanto che la cucina italiana all’estero è spesso identificata con il risotto. Il risotto allo zafferano è una ricetta antica di quattrocento anni. Lo zafferano era uno dei colori base per i mastri vetrai. A Milano c’era un mastro vetraio che veniva chiamato Zafferano perché si occupava dei colori gialli. Lo zafferano veniva usato per dipingere le vetrate del Duomo di Milano; la leggenda dice gli amici fecero uno scherzo a Zafferano nel giorno del suo compleanno: gli misero questa spezia nel riso e da lì è nacque il risotto alla milanese. Al Ratanà abbiamo fatto un focus preciso, una ricerca rispolverando tutto quello che era la vecchia cucina di Milano, chiaramente usandola in maniera contemporanea e un po’ contaminata dai prodotti italiani non regionali. Il nostro è un progetto che va al di là del piatto e parte dal luogo in cui siamo: undici anni fa abbiamo preso questo luogo e lo abbiamo messo a posto cercando di dare un’anima a quello che c’era dentro. Era un deposito delle ferrovie Garibaldi e il bronzista Bagatti ha fuso tutto il ferro dei binari e gli ha dato nuova vita: i tavoli ad esempio sono di quel ferro. Il nome Ratanà deriva da un prete sui generi, scomunicato dalla Chiesa, ma considerato un po’ come il Padre Pio di Milano: si diceva facesse miracoli; in realtà era un taumaturgo e curava con le erbe mediche. Il suo nome era Giuseppe Gervasini ma, visto il suo primo sacerdozio lo fece a Retenate, venne chiamato pret de Ratanà. La cucina, secondo me, deve avere delle basi solide e radicate nella tradizione. Questa cosa è sempre meno presente nel panorama gastronomico: si fa cucina contemporanea ma non attingendo da solide basi. Questo per me è un male: se un cuoco, un ingegnere, uno scultore, un qualsiasi professionista non sa da dove viene non può sapere nemmeno dove andare, non ha materiale su cui lavorare. Le basi della cucina italiana sono sempre più a rischio. I ragazzi di Pollenzo quando vengono al Ratanà guardano e si stupiscono: si sono spostati i pesi e le misure da tutte le parti; c’è bisogno di tornare alle origini e per poi evolvere. Una volta nelle scuole insegnavano a fare la pasta fresca … questo ora non avviene più: gli unici detentori del sapere culinario sono i cuochi e, se non si portano avanti le tradizioni, si rischia la perdita della nostra stessa cultura. Ovviamente questo discorso non vale solo per Milano, ma per tutta l’Italia. Noi abbiamo una ricchezza incredibile: noi dovremmo essere i primi al mondo in quanto espressione culinaria anche perché la nostra è una cucina popolare.

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Tieni molto al territorio e ai produttori: come li cerchi e come collabori con loro?

Al Ratanà non entra nulla di industriale, nemmeno il sale: lo prendiamo dalle Saline di Pirano, appena fuori dal Friuli, in Slovenia. È l’unica salina sotto protezione Unesco: qui il sale viene raccolto, fatto seccare su una battigia che ha una fanghiglia nera, tanto che poi sembra una striscia di ceramica nera; si ottiene un sale in fiocchi bianchissimo senza aver bisogno di sbiancamento. Cerco i produttori e prodotto migliore: abbiamo un team rodato che lavora in maniera etica e sostenibile. Negli ultimi anni c’è un barlume di speranza perché ci sono tanti ragazzi laureati in biologia, agraria e veterinaria che stanno prendendo in mano cascine e produzioni. Una delle cose più difficili è stata la ricerca dei fornitori di pesce: io uso solo quello di acqua dolce e non è facile trovarlo e nemmeno lavorarlo. Come in tutte le cose trovi chi ama il proprio lavoro e lo fa bene: Stefano Luasetti, che lavora sul Lago di Garda, pesca in modo impeccabile, rispettando l’ambiente in cui opera. Quando pesca sotto periodo riproduzione spreme i pesci, conserva le uova in un secchio e poi le porta al guardia pesca; le uova fecondate vengono messe nelle vasche di stabulazione e, una volta cresciuti, gli avannotti vengono ributtati nel lago. Agire in questo modo vuol dire proteggere il proprio lavoro, la natura, il futuro perché nel lago ci sarà sempre pesce.

Come riesci a spiegare questi prodotti, il pesce di lago ad esempio, e a proporli nei tuoi piatti?

Non è facilissimo far passare il messaggio. Nove anni fa, quando abbiamo aperto, a Milano nessuno, ad esempio, lavorava il pesce di lago: abbiamo fatto da apripista. Non è facile convincere la clientela, abituata a pesci come il branzino, a mangiare i pesci di lago. Ma con la costanza e offrendo prodotti di qualità è possibile. Noi abbiamo da sempre un menù trasparente con i nomi di tutti i nostri produttori; li mettiamo in condivisione con altri cuochi perché queste persone fanno fatica a tirare fine mese: noi dovemmo essere gli altoparlanti dei produttori. Fortunatamente dopo anni la nostra clientela sa che non metteremmo mai nei piatti che proponiamo nulla che non metteremmo nel nostro.

A quali piatti della tradizione sei più legato?

In carta abbiamo fisso risotto alla milanese, ossibuchi e altri. Io sono molto legato ai piatti di verdura primaverile: mi piace utilizzare il tarassaco, i bruscandoli … Sono i piatti poveri della cucina di tutti i giorni. Mi piacciono molto anche cavoli, verze zucchine fiori di zucca ripieni di mozzarella di bufala.

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Inevitabilmente la cucina tradizionale di una regione è contaminata dal resto del mondo circostante: in cosa ti lasci influenzare?

È una contaminazione di materie prime, di prodotti. Ormai la globalizzazione avanza e non esiste più una cucina di territorio che sia “tua e basta”. Quello che prima poteva essere la tua città ora è la tua nazione: ne senti l’esigenza perché comunque è cambiato il clima, perché tanti prodotti non ci sono a Milano. A Milano non esiste la cucina a km 0: nel Parco agricolo Ticino ci sono persone che lavorano benissimo, ma non crescono arance, limoni, mandarini; non crescono porcini… Bisogna approvvigionarsi con intelligenza e lasciare contaminare la cucina rispettando i cardini: va benissimo, per esempio, usare le cime di rapa ma se le metti in un risotto fatto con tutti i crismi.

Qual è la tua sfida e quella della ristorazione?

Più che di sfida penso si debba parlare di serietà. Il nostro lavoro è molto serio: la sfida dei ragazzi di domani è usare la testa. Mi piacerebbe che la sfida gastronomica fosse una sfida onesta nei confronti dei clienti e del territorio, dettata da una scelta di prodotti di qualità nel rispetto del territorio. Sembra retorica ma non lo è: è la necessità dettata da una realtà. Leggendo i report dell’agricoltura viene da mettersi le mani nei capelli: c’è una reale possibilità che in un prossimo futuro non saremo autosufficienti. In Italia siamo custodi dei più antichi grani del Mediterraneo eppure non c’è nessuno che li coltiva. Una grossa sfida è proprio quella di aiutare contadini, pescatori e agricoltori a vivere e fare il loro lavoro. In Italia i contadini sono solo il 3% di cui l’80% ha più di sessant’anni. Questa è la vera sfida, non fare il bel piatto: abbiamo un ruolo all’interno della società, che non è quello di far da mangiare solamente, ma dobbiamo educare e acculturare i clienti e, se è possibile, anche nelle cose scomode, anche portando alla luce dei problemi.

Con quale piatto ti descriveresti?

Amo le verdure. Potrei dire un minestrone in inverno o una zuppa con farro con tante verdure perché in un unico piatto ci sono tante espressioni: c’è la dolcezza della carota, l’amaro della cicoria, il sapido del brodo. È come un carattere. Un giorno sei felice, lo puoi paragonare al dolce; un altro arrabbiato, ecco l’amaro … le cose non vanno mai nello stesso modo. A me fanno paura le persone molto sicure di sé: un po’ di sicurezza ci vuole, ma bisogna aver l’umiltà di mettersi in discussione .

Qual è il tuo piatto del ricordo?

Non è un piatto, ma proprio un ricordo: è il profumo torte e biscotti. Da bambino mi svegliavo la mattina con la ciotola di latte caldo e ho ancora quel profumo ben presente. I ricordi sono sensazioni; mi svegliavo sentendo il profumo della moka del papà e delle torte di mamma. È un profumo rassicurante, come lo è la cucina che faccio: quando fai cucina di tradizione devi colpire al cuore le persone. Qualche tempo fa venne a cena un signore sugli ottant’anni, prese un cartoccio di mondeghili e ancor prima di ordinare altro mi chiamò al tavolo. Aveva le lacrime agli occhi e mi disse queste sono le polpette che mi faceva mia mamma. Ecco quando accade questo sei già arrivato a quello che vuoi raccontare. La cucina è sensazione, è cosa atavica, è qualcosa che ci trasmettono i genitori: quando riesci a ritrovare lo stesso filone ti emozioni.

Fare la spesa e cucinare sono attività abituali per tutti; azioni che si fanno spesso senza pensare, senza cogliere il loro valore simbolico e culturale da un lato e le implicazioni ambientali e sociali dall’altro. L’atto di decidere cosa e come cucinare racchiude in sé cultura e rispetto dell’ambiente e del lavoro di tante persone. Sembra banale o scontato, ma sono stata felice che qualcuno come Cesare Battisti, che nella diffusione di questo messaggio profonde il suo impegno quotidiano, me lo abbia ricordato.

Fonti:
Ristorante Ratanà
Parco del Ticino
Le saline di Pirano (monfort)

Le foto d’apertura e dei piatti sono di: brambillaserrani

a cura di Laura Bertolini del blog frittomisto.

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