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Pubblicazione: 27/04/2018
“El vin fa sangue, l’acqua fa tremar e gambe”
Un tempo il vino nel Veneto era quello che i contadini bevevano per accompagnare i loro cibi poveri e semplici. Portavano in tavola: el clintòn, el fragolo, el nostràn, el bacò, vini quasi del tutto scomparsi.
Oggi il vino nel Veneto è quantità, ma soprattutto qualità, quindi anche Amarone.
Per il Gran Tour d’Italia abbiamo chiesto alla sommelier Mariana Alverdi non la consueta valutazione tecnica, ma di raccontarci il “suo” Amarone, che è anche un po’ di quello di suo marito, lo Chef Andrea Fusco del Ristorante Giuda Ballerino del Bernini Bristol di Roma.
“Era quel periodo irripetibile in cui si lascia la casa natale e si va incontro all’ignoto, alla tanto desiderata indipendenza. Ci si sente invincibili, anche se non si ha nient’altro che due tasche vuote e tanta voglia di rifare il mondo da capo.
Avevamo appena preso casa, io e Andrea. Passeggiando per il quartiere ci fermammo davanti a una enoteca. Le vetrine erano piccole, molto curate e piene zeppe di bottiglie, illuminate da una luce soffusa che rendeva tutto molto accogliente. Era come un salotto con un camino, un libro e l’ottima compagnia di un buon bicchiere di… di cosa?
Eravamo troppo piccoli per capire cosa vendevano in quell’enoteca, ma entrammo. Non potemmo resistere. Il proprietario era molto indaffarato a sistemare tante bottiglie in uno spazio troppo piccolo, ma ci riusciva benissimo. Ci guardò, gli bastò quello sguardo. Ci prese per mano e uscimmo da lì con due vini, un bianco, se non ricordo male un Lacryma Christi, e un rosso, un Amarone.
Mi innamorai per un periodo abbastanza lungo del bianco, ma come ogni buon studente, una volta che sapevo tutto, passai all’altro, l’Amarone. Fu una rivelazione.
Denso, cioccolatoso, pieno, chiuso, morbido, dolce, alcolico senza darlo a vedere…
C’era un mondo nel mio bicchiere!
Un sorso pieno di velluto, rotondo, che conquista tutta la bocca.
Un retrogusto infinito, giustamente tannico.
Dopo la prima bottiglia andai dritta a letto.
Di lì a poco avremmo aperto il nostro ristorante e io sarei stata catapultata in un luogo magico quanto crudele. Quello del sommelier. Badare alla cantina, un onore, ma anche tanto lavoro. Lavoro che ti dà voglia di lavorare ancora: è come essere stati “morsi” da un veleno del quale non si è ancora trovato l’antidoto. Si è contagiati per la vita.
Prima ci furono i rappresentanti con i loro noiosissimi cataloghi tutti uguali. Poi, a forza di ordinare bottiglie sbagliate, cominciai ad acquisire sicurezza.
Poi, un’altra rivelazione: l’invito a visitare cantine. Raccontare una bottiglia, vedendo l’etichetta, informandosi su vitigno e microclima, assaggiarla e poi proporla è completamente riduttivo.
Conoscere ed essere accolti in cantina dai produttori, visitare insieme a loro le vigne, sentirli raccontare come il sole illumina durante il giorno le diverse colline, capire cos’è una selezione, vedere i macchinari, la barricaia, assaggiare diverse annate della stessa etichetta mentre il produttore racconta tutto ciò che è accaduto nei diversi anni… Non è sufficiente una sera per raccontare il vino, bisogna avere una buona capacità di sintesi.
L’Amarone rappresenta per me l’inizio della mia professione. Avvenuto per puro caso, e per pura fortuna. Ciò che di più sorprendente mi ha insegnato il mio lavoro è l’aver potuto conoscere molti viticoltori, ma anche l’umiltà nei confronti del lavoro umano.
Niente di meglio dell’Amarone per definirlo: selezionare i grappoli, metterli sui graticci belli e distesi, assicurando il passaggio della brezza per evitare muffe. L’attesa. Pazienza orientale. Scegliere il momento per vinificare…
Il tutto legato indissolubilmente all’amore verso Andrea e verso il viaggio, che insieme abbiamo intrapreso professionalmente.
E’ sempre saggio avere in casa almeno una bottiglia di Amarone, e perché no, di Recioto.
Non si sa mai.”
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Che bel racconto. Io ho assaggiato l’amarone che ero già adulta, è un vino indimenticabile anche per una inesperta come me.