
27 Settembre 2023
Favole in cucina: Cappuccetto Rosso e il Lupo
La nostra Signora delle favole ci racconta la sua rivisitazione di Cappuccetto Rosso e il Lupo, naturalmente in chiave golosa e gastronomica...
Pubblicazione: 7 Luglio 2018
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La mitologia fa risalire l’uso del formaggio ad Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene: proprio quest’ultima avrebbe insegnato agli uomini l’arte casearia, oltre a quella della pastorizia e dell’apicultura.
Una sorta di prima classificazione arriva da Marco Terenzio Varrone nella sua opera De re rustica dove illustra i principali tipi di formaggi consumati nel II secolo a.C. (vaccini, caprini e ovini freschi e stagionati) dimostrando come il gusto dell’epoca fosse rivolto ai formaggi ottenuti con il caglio di lepre o capretto, anziché di agnello.
Agli Etruschi e ai Romani, invece, si deve il perfezionamento dell’uso di coagulanti di tipo vegetale, come il fiore di cardo o il latte di fico e le loro tecniche di applicazione.
Un’arte casearia vera e propria, dunque, anche se l’inizio del Medioevo ha visto nascere molti pregiudizi nei confronti del formaggio, soprattutto verso gli ignoti meccanismi di coagulazione e fermentazione, visti con sospetto tanto che i trattati di dietetica dell’epoca ne limitavano il consumo, ritenendo che solo piccole dosi di formaggio non nuocessero alla salute.
Più tardi il formaggio, fino allora considerato il cibo dei poveri, è stato riabilitato tanto da sostituire la carne nei giorni di astinenza infrasettimanale di Vigilia e Quaresima.
Più avanti, sono stati i monasteri a dare un importante impulso alla produzione casearia: gli allevamenti di bovini stanziali nelle abbazie e le attività economico-rurali svolte dai monaci hanno permesso la nascita di nuove varietà di formaggio.
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La pastorizia nel Lazio ha tradizioni secolari: un patrimonio di storia e tradizione.
Gli antichi romani apprezzavano molto il pecorino romano: nei palazzi imperiali era considerato il giusto condimento durante i banchetti, mentre la sua capacità di lunga conservazione ne faceva un alimento base per le razioni delle legioni romane durante i loro viaggi.
Le prime testimonianze circa l’uso del pecorino romano risalgono dunque all’Impero: originario dell’Agro Romano è descritto dettagliatamente nelle opere di molti autori dell’Antica Roma come Plinio il vecchio, Marco Terenzio Varrone, Lucio Giunio Moderato Columella e Publio Virgilio Marone.
Storicamente parlando il pecorino sembra avere un antenato nel Caciofiore: un formaggio prodotto con il caglio vegetale ottenuto dal fiore del cardo selvatico (Cynara cardunculus).
Ora, nella campagna romana, dove il cardo e il carciofo hanno il loro habitat naturale, è ripresa una nuova produzione: quattro produttori utilizzano il fiore di cardo, appositamente coltivato, come caglio e offrono pecorini a latte crudo dal sapore antico.
La produzione di questo formaggio inizia d’estate e precisamente nelle giornate più calde e soleggiate, quando il fiore del cardo selvatico raggiunge il suo colore viola più intenso. I fiori vengono fatti essiccare al buio, appesi a testa in giù. Dopo almeno venti giorni, gli stami sono messi sottovuoto, poi fatti macerare in acqua che, in seguito, sarà filtrata e aggiunta al latte: ed è grazie all’azione prodotta dagli enzimi del fiore che il latte coagula.
Il formaggio ottenuto viene salato a secco poi trasferito nel locale di stagionatura per un periodo che va dai trenta agli ottanta giorni.
La caratteristica crosta grinzosa e giallognola del caciofiore racchiude un cuore di formaggio sorprendentemente cremoso, con un profumo profondo e ricco, con naturali sentori di carciofo e verdure di campo: ha un sapore intenso, non salato, lievemente amaro, avvolgente e con una equilibrata nota grassa.
La terra di origine del caciofiore è il Lazio. Per la sua produzione si usa latte crudo intero di pecora, senza additivi e fermenti lattici. L’alimentazione delle pecore, prevalentemente di razza sarda e comisana, non prevede l’utilizzo di foraggi insilati e di prodotti derivanti da coltivazioni OGM.
E’ un formaggio che un tempo si produceva solo nel primo periodo di lattazione della capra, nel mese di marzo, ecco il perché del nome. Si ricava con il latte di due mungiture coagulato con caglio di capretto.
La Marzolina è un formaggio che può essere consumato fresco oppure può esser fatto stagionare. La tradizione vuole che dopo la stagionatura le formaggette siano lasciate maturare per qualche mese in damigiane di vetro colme di olio d’oliva.
Ha una forma cilindrica allungata e se stagionato, la sua buccia diventa dura e asciutta. E’ un formaggio a pasta bianca ma se messo sott’olio diventa bianco avorio. Ha il tipico odore animale dei formaggi caprini. All’assaggio è dolce, ricco e untuoso; se è stagionato a lungo, il gusto diventa sempre più potente per terminare in modo piccante ma non pungente.
L’area storica di questo formaggio è sulle pendici dei monti Ausoni, in particolare a Esperia (Frosinone) ma, grazie all’incremento dell’allevamento caprino nelle province di Frosinone e Latina, ora si produce anche altrove e, soprattutto, in Val di Comino.
L’obiettivo del Presidio Slow Food è proprio quello di trovare altri produttori che possano riprendere questa tradizione: oggi i produttori coinvolti dal progetto sono due giovani che utilizzano il latte delle loro capre, prevalentemente di razza Grigia Ciociara, Camosciata e Bianca Monticellana. Il Presidio richiede, nel disciplinare di produzione, che le capre siano alimentate brade per tutto il periodo favorevole al pascolamento.
Autrice Marina Riccitelli del blog Merincucina
Fonti: Formaggio.it, Fondazione Slowfood, Caseificio e Juliis
Foto di Serena Bringheli, di Marina Riccitelli. foto d’apertura dal web
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