01/10/2024
Il ricettario ufficiale di Netflix
Il ricettario ufficiale di Netflix è un libro di cucina decisamente sopra ...
Pubblicazione: 14/11/2023
Lista degli argomenti
Nel cuore del mese di ottobre, quattro signore con il quaderno nella borsa e la macchina fotografica sono partite per visitare Piacenza, le sue colline e i castelli. E per assaggiare i suoi vini che sono il fil rouge intorno al quale si svolge la storia di questo territorio. Il Mito della Malvasia racconta le colline di Piacenza e i suoi abitanti attraverso i suoi vini profumati e, solo per oggi, io sarò la sua voce. Infatti sono una di quelle signore, cuoche narranti di Associazione Italiana Food Blogger, mandate in viaggio per restituire, attraverso le parole, la meraviglia di un territorio splendido e suggestivo, ancora sconosciuto ai più.
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Sono scesa dal treno curiosa di visitare Piacenza, con la mente e il cuore aperti alla scoperta, e questa città mi ha conquistata subito.
Ma perché visitare Piacenza?
Perché una città che ha una storia così importante non può che essere affascinante. Piacenza è una città antica, di impianto romano, e sorge nel punto in cui la Via Emilia e la Via Francigena si incontrano. Fu crocevia di scambi e commerci fin dall’antichità. I mercanti piacentini infatti, potevano arrivare dappertutto e la città era facilmente raggiungibile dai mercanti stranieri. Inoltre aveva una caratteristica particolare: molti nobili commerciavano. Questa nobiltà così dinamica e danarosa si impegnò nel costruire palazzi e chiese maestosi, che possiamo ammirare ancora oggi. La città si ingrandì nel medioevo e divenne poi famosa per l’eleganza dei suoi palazzi e per la vivacità culturale dei suoi salotti.
Dopo la visita iniziale al Collegio Alberoni, abbiamo fatto un giro veloce, di una sola mezza giornata, passando attraverso il centro storico fino a Palazzo Farnese. Non mi attardo sulla meraviglia di chiese e palazzi, di cui invece, ha raccontato tutto Gabriella Rizzo nel suo articolo Piacenza tra colli, castelli, borghi e Malvasia; voglio parlare invece di quello che, passeggiando per la città, ho capito dei piacentini di ieri e di oggi.
Sono un popolo generoso: altrimenti perché fondare nel 1700 un collegio magnifico dove studiare a costo zero, e portarlo avanti fino ad oggi? Unico nel suo genere, il Collegio Alberoni è proprio questo, un luogo in cui vengono offerte a tutti le stesse possibilità.
Sono gente pratica, un popolo intelligente. Furono i primi a rappresentare in chiesa i mestieri, scolpiti in piccole formelle. Fino ad allora il lavoro manuale era considerato una punizione divina. Invece a Piacenza, nell’anno Mille, le corporazioni degli artigiani finanziarono in parte la costruzione della (splendida) cattedrale, che era allora, la più grande d’Europa. E pretesero in cambio le formelle scolpite sulle colonne.
Infine, in passato, i piacentini furono un popolo fiero, indomito e litigioso. Per questo costruirono i magnifici castelli di cui oggi godiamo, moltissimi per un territorio tanto piccolo. Faticarono talmente a sottostare al dominio della famiglia Farnese che li costrinsero a costruirsi una fortezza in città: il Palazzo Farnese.
Visitare i colli piacentini in autunno è stato un dono. Non solo per i colori caldi dei filari di vite, ma anche perché tutto è più morbido e rilassato. Un tempo di quiete dopo il furore dell’estate, per gli uomini e per la natura. Le colline sono un paesaggio dolce, ma la luce tiepida del mese di ottobre, il rosso dei tramonti e le sfumature rosa del mattino favorivano un clima di pace interiore, come se davvero fosse importante fare piano, per non disturbare il riposo della vite.
Per i vignaioli piacentini la terra che lavorano è famiglia, questa è la prima cosa che ho capito nel corso del mio giro di assaggi per cantine. Il Mito della Malvasia nasce proprio così, da uomini e donne determinati, certo, ma sensibili e attenti, che hanno compreso quale fosse il potenziale dei grappoli ambrati di malvasia. Così, ascoltando le viti, hanno affinato al massimo il lavoro in vigna, modulato il tempo della vendemmia e privilegiato la qualità, ed hanno ottenuto vini straordinari.
Oggi non saprei dire se il mito della malvasia nasca dal suo antico viaggio da Candia a Piacenza, se nasca dalla cura dei vignaioli, o se siano le due cose insieme a fare di questo vino bianco aromatico un mito.
Fornello è un piccolo borgo in Val Tidone, nel comune di Ziano Piacentino, e Torre Fornello è la sua cantina. Prende il nome da quattro forni che nel medioevo cuocevano mattoni d’argilla e sassi di calce. A Torre Fornello si produce vino da generazioni. La tenuta, passata per le mani di diverse famiglie nobili, dalla fine degli anni Ottanta è di proprietà della famiglia di Enrico Sgorbati, che coltiva sessantuno ettari di vigneto biologico senza concimare la terra, in modo che le radici delle viti possano affondare nel profondo, alla ricerca di preziosi minerali e dell’acqua. Enrico lascia crescere l’erba tra i filari, favorendo così il lavoro degli impollinatori. Insomma ama la sua vigna, la rispetta e la custodisce: lui si sente “il custode” del luogo dove vive e lavora. La sua tenuta curatissima è la location perfetta per feste e matrimoni chic; inoltre ospita spesso mostre d’arte ed eventi culturali. Le cantine storiche di Torre Fornello sono misteriose e affascinanti, conservate intatte fin dal 1400 insieme ai loro fantasmi. Enrico è un padrone di casa squisito, generoso nel racconto e nell’ospitalità. Ci offre tutti gli assaggi possibili, e ci racconta anche i problemi legati al cambiamento climatico e alla difficoltà di sensibilizzare il mercato italiano ai suoi magnifici vini.
Su una cosa non transige: i vini di Torre Fornello narrano una storia, hanno personalità. E lui li vuole così, vini che raccontino la terra d’origine, l’amore del produttore e il suo carattere. In quest’uomo determinato a produrre il meglio e a proporlo io vedo la fierezza piacentina di cui parlavo prima. Enrico si addormenta la sera con la consapevolezza di produrre vini eccellenti. Se non tutti lo comprendono, non importa: capiranno.
La cantina Luretta prende il nome dal fiume, come del resto anche la valle. Le sue cantine storiche sono nelle viscere del piccolo castello di Momeliano, e sul pesante portone c’è un cartello che dice: “La principessa dorme qui”. Non parliamo del solito fantasma, ma di uno chardonnay di gran classe.
I vini di Luretta sono così, eleganti e appassionati. Vini un po’ misteriosi perché hanno nomi magnifici, che stuzzicano la curiosità ma che anticipano anche molto di quel che sono.
“L’ala del drago”, “I nani e le ballerine”, “On attend les invités” e, appunto, “La Principessa”. Questi sono i nomi, evocativi e iconici, dei vini di Luretta di cui non dirò null’altro se non che sono davvero buoni. Di questi vini e di tutti gli altri vi racconterà meglio Alessandra Pocaterra nel suo articolo Il Mito della Malvasia e le sue cantine.
Vorrei raccontare invece le emozioni che ha suscitato in me la signora Carla Asti, che, in piedi davanti a noi, ha presentato la sua cantina.
Carla è una bella signora, capelli corti grigi, semplice ma elegante come la sua cantina, e ci racconta tutto dall’inizio, cioè trent’anni fa, quando Luretta decise per prima di produrre vini biologici. Prosegue parlando della terra, delle viti, delle stagioni, con la pioggia e la siccità e, anche lei, parla di radici, erba, fiori e insetti impollinatori.
Insomma, chi comanda sono i vigneti: sono loro a dire quando soffrono la sete e quando invece possono lavorare. Ogni vite sa cosa può portare a termine ed è per questo che i grappoli non si diradano. Carla Asti fa un lavoro di nicchia, protegge la sua identità e lavora nel rispetto dell’ambiente, anche di quello circostante il suo terreno.
“Bisogna essere umili nei confronti delle piante che coltiviamo: vivono come noi. Bisogna avvicinarsi con rispetto, lo stesso che vorremmo per i nostri figli, e imparare a mettersi nei loro panni”, dice.
Arriviamo a La Tosa, in Val Nure, per l’aperitivo. Ad attenderci c’è Stefano Pizzamiglio, titolare con il fratello Ferruccio di questo agriturismo in collina. Il racconto di Stefano è un fiume di parole appassionate. Non ci accoglie come esperti, ma come amici a cui può raccontare la sua vita che si intreccia con la terra e con le viti.
La storia dei fratelli Pizzamiglio è un romanzo. Figli di un medico votato al sociale, Stefano e Ferruccio avevano pensato di poter essere medici anche loro. Ma sbagliavano. La loro strada era il vino, e La Tosa li aspettava a Vigalzone nell’aspra Val Nure, per diventare quello che è oggi. Dal papà hanno imparato che si vive e si lavora per passione, e Stefano e Ferruccio conservano questo insegnamento prezioso e lo tramandano. Probabilmente, lo beviamo anche noi con il loro vino.
Nel 1980 i fratelli Pizzamiglio, giovanissimi, comprano i primi terreni e piantano i vigneti sulla terra abbandonata. Questo è solo l’inizio. I ragazzi studieranno tanto e lavoreranno tanto, sempre con indomita passione, per arrivare a comprendere infine che l’uva di malvasia può dare molto di più di quanto le viene chiesto, che può invecchiare e diventare il vino straordinario che beviamo oggi. L’intuizione che si potesse uscire dallo schema tradizionale di produzione del vino da damigiana, quindi, si deve a due giovani viticoltori scappati dalla Milano da bere degli anni Ottanta, e trapiantati quassù nel cuore della Val Nure.
Oggi La Tosa è una fiorente azienda vinicola e un agriturismo dove si possono gustare piatti antichi e si può passare la notte. Inoltre ospita un bel Museo del Vino, con tanti arnesi, documenti e reperti legati alla tradizione enologica di questo territorio. Annessa al museo c’è una piccola biblioteca di libri rari, aperta a tutti coloro che volessero saperne di più. Venire qui alla Tosa è partecipare anima e cuore ad un progetto di vita che Stefano riassume così:
“Il vignaiolo è colui che lavora la sua terra, che produce vino e lo vende. Vive a contatto con le sue viti come con i figli. Ė custode della sua terra, della vigna e del vino, prima che (come un figlio) prenda la via del mondo”.
Il Vin Santo di Vigoleno nasce tanti anni fa, quando tutto si svolgeva intorno alla parrocchia di Vigoleno per la quale i viticoltori producevano il vino da messa. Le decime non erano in denaro bensì in grappoli, che venivano portati al castello per farne vino: la tradizione è antichissima. Oggi i produttori di Vin Santo di Vigoleno sono solo sei, e c’è un disciplinare a regolarne la produzione e la vendita. Capofila del Consorzio del Vin Santo di Vigoleno è Giuliano Visconti, titolare della cantina Visconti che produce Vin Santo fin dal 1960 con la sua famiglia.
Giuliano non si limita a raccontare il metodo ancestrale, ce lo mostra. I grappoli, adagiati su morbide amache, riposano in santa pace. Nessuno fa loro fretta né li disturba mentre si prendono il tempo di appassire naturalmente grazie al lavoro delle muffe nobili. A tempo debito verranno premuti dolcemente e resteranno a lungo in botti di rovere.
Nella cantina Visconti oggi si dovrebbe vendere il Vin Santo del 2015, se ancora ce ne fosse qualche bottiglia.
Giuliano ci racconta che il lavoro accurato comincia in vigna e che, nonostante loro non abbiano certificazione biologica, non interferiscono in alcun modo con le viti, con i lieviti indigeni e con i tannini, in modo anzi da proteggerli il più possibile.
Alle nostre spalle, una piantagione di giovani ulivi: forse presto parleremo anche di olio.
Veniamo accolti all’ombra di un pergolato per l’assaggio dei vini. Io sono impaziente perché conosco il Vin Santo di Vigoleno e so cosa mi aspetta. Lo assaggio con rispetto, mentre osservo il panorama incantevole che si gode dalla terrazza della cantina Visconti. Valentina mi racconta che in estate organizzano degustazioni al tramonto: “Il calice con vista”. Il Vin Santo mi riempie la bocca del suo profumo, e io immagino uno zabaione al tramonto, servito tiepido in inverno, qui su questa bella terrazza. Che meraviglia sarebbe, uno zabaione da meditazione per riflettere sulla bellezza della vita.
Durante il mio viaggio per i colli piacentini ho visitato borghi e castelli medioevali. Ne ho visto solo qualcuno, ma davvero non saprei scegliere dove tornare e, al contrario, mi ripropongo di vedere tutti i castelli del vecchio Ducato di Parma e Piacenza che non ho visitato, anche quelli senza fantasmi, che sembrano essere i più sfortunati. Scendere dall’auto e ritrovarsi a percorrere le piccole vie lastricate di un borgo medioevale è un po’ come viaggiare nel tempo. Se permetto alla mente di correre, posso immaginare le persone che qui hanno camminato prima di me, nobili eleganti e ragazze affaccendate, vedo le botteghe aperte sulla via, i cavalli e i bambini giocare. E quando arrivo in piazza, o salgo sulla torre al tramonto, dopo tanti ripidi scalini, allora il panorama è mozzafiato e la suggestione è perfetta.
In alcuni luoghi, passato e presente si incontrano in una realtà intermedia dove è bello essere accolti, ed ascoltare storie antiche come se fossero attuali. E talvolta è proprio vero.
Nel corso del mio giro ho visitato velocemente la Rocca di Agazzano. È una sintesi tra due stili architettonici diversi e tra due modi di concepire la vita. Il mastio medievale è un’imponente costruzione difensiva, ma accanto troviamo un’incantevole villa settecentesca, dove i Principi Gonzaga del Vodice, una delle più antiche dinastie d’Italia, trascorrono una parte dell’anno.
Appena prima di partire poi abbiamo dato uno sguardo a Vigoleno, un angolo intatto di medioevo a nostra disposizione. Il camminamento di ronda sulle mura merlate regala un panorama splendido sulle valli, ed è lì che ho compreso cosa significa castelli del crinale, perché Vigoleno sta proprio lì, sul crinale di due valli, al confine tra Parma e Piacenza. Vigoleno è classificato tra i Borghi più belli d’Italia, e il Touring Club lo ha insignito della bandiera arancione.
Bisognerà sicuramente ritornare, anche per mangiare di nuovo al ristorante Bollicine e Tortafritta: torta fritta, salumi piacentini e un ottimo Ortrugo. Conviene prenotare!
Il Castello di Rivalta è un luogo magico e fiabesco circondato da un borgo incantato che ci catapulta all’istante in un tempo passato.
I Conti Zanardi Landi vivono ancora al castello di cui mantengono la proprietà, ed hanno trasformato Rivalta, il borgo e il giardino in una residenza di charme dove vivere un’esperienza immersiva nella suggestione e nella leggenda.
A Rivalta si può dormire in un elegante albergo diffuso con tanto di bistrot, passeggiare nel parco, riposarsi al centro benessere e infine, visitare il castello.
Io l’ho fatto al tramonto, nella luce rosa della sera.
Al suo interno non si può fotografare e quindi faccio memoria delle meravigliose stanze che ho visto.
Nella cucina delle carni, una delle sei del castello, ho immaginato di cucinare: una bellissima cucina dal focolare enorme, pentole e tegami in rame e meravigliose ceramiche. Per una cuoca come me è il paese dei balocchi. Invece questa cucina era il regno del cuoco Giuseppe, l’unico fantasma di cui vorrei le ricette. Era un bravo cuoco ed un grande amatore, e sembra che molte ragazze più o meno ingenue siano cadute tra le sue braccia. Per lui però finì male, perché fu ucciso da un marito geloso che si era arrabbiato davvero.
La notte, sprofondata nel mio magnifico letto a baldacchino, ho fatto molti sogni, ma del cuoco Giuseppe nessuna traccia.
La Rocca Viscontea di Castell’Arquato è diversa dagli altri castelli che ho visitato. Anche se la sua piazza conserva intatte le caratteristiche del medioevo (appartata, laterale, e chiusa), se la sua chiesa è bellissima e la sua rocca imponente, Castell’Arquato è un borgo vivace dove la gente vive e lavora e dove passato e presente s’incontrano senza soluzione di continuità.
Questa è la sua magia: da una parte è un angolo di medioevo così ben conservato da potersi permettere di essere il set di film in costume, dall’altra è un paese che vive al giorno d’oggi, e che, dal medioevo, non ha mai smesso di essere abitato.
La chiesa romanica, dove la luce entra da piccole finestre laterali e si incanala tra le colonne per illuminare l’altare, è un esempio perfetto dell’uso della luce nel 1100, ma alle 11 della domenica la campana suona la Messa, le persone arrivano veloci ed i turisti (noi) vengono educatamente accompagnati fuori.
Ho adorato passeggiare per le vie di Castell’Arquato, passare davanti alla casa più antica, soffermarmi davanti alla fontana storica che, per prima, portò acqua in città. Ho guardato la rocca e le torri dal basso in alto, sempre con la sensazione di essere parte del tempo che passa.
La cura dei restauri, la pulizia, l’accoglienza a Castel d’Arquato non sono solo per chi passeggia in visita nel borgo medievale, sono anche per chi lo abita, perché qui la vita non si è mai fermata.
Visitare Piacenza, le sue colline, i castelli e i borghi è un viaggio fuori dai soliti percorsi e incredibilmente bello. Aggiungiamo alla dolcezza del paesaggio e all’arte anche le cantine, impossibili da perdere perché custodi del territorio, delle viti e dei vini straordinari che esse producono. Aggiungiamo poi la cucina, le ricette antiche e i salumi piacentini. E infine l’ospitalità accurata e generosa dei piacentini che rende speciale questo viaggio.
Sarà questo il mito della Malvasia? Questo miscuglio di vita, storia passata e futuro che ho respirato? Penso di sì, e mi piacerebbe molto che altri lo scoprissero.
Ringrazio la nostra guida, Claudia Marchionni, una signora d’altri tempi in quanto a garbo ed eleganza, una professionista generosa e competente che ci ha guidato con un racconto mai banale estremamente vivace e interessante. Ringrazio il signor Losi del Gal del Ducato, Gruppo di Azione Locale di Parma e Piacenza, promotore del nostro viaggio nel cuore della Malvasia. Senza la volontà forte del Gal di promuovere questo territorio magnifico, niente sarebbe stato possibile. Infine ringrazio il signor Maurizio Pavesi, direttore dei Castelli del Ducato, per la sua partecipazione al progetto e per la compagnia, e l’Associazione Italiana Food Blogger, per avermi insegnato che “Il cibo è un atto culturale” e che posso raccontarlo a parole, riportandone la storia, l’emozione e la memoria legati spesso ai luoghi d’origine.
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Grande Silvia bellissimo articolo, non vedo l’ora di tornare a Piacenza
Io pure, ma noi insieme però!
Bellissimo articolo scritto con il cuore ❤️
Grazie, si le colline di Piacenza mi hanno proprio mosso il cuore.