Il cibo nelle novelle di Giovanni Boccaccio

Nastagio degli Onesti - Sandro Botticelli

Il cibo nelle novelle di Giovanni Boccaccio assume diversi significati e ruoli narrativi. In alcuni casi viene descritto, in altri si accenna ad esso ma l’attenzione è sulla presentazione. Durante il banchetto emergono debolezze o virtù umane.

Ma procediamo con ordine e vediamo chi è Giovanni Boccaccio.

Giovanni Boccaccio

Il 16 giugno segna la data di nascita di Giovanni Boccaccio, una delle tre corone della letteratura italiana.

Figlio illegittimo del mercante Boccaccino di Chellino, Boccaccio nacque nel 1313 a Firenze (o forse a Certaldo).

Studiò prima a Firenze, ma trascorse molti anni a Napoli, dove il padre si trasferì in qualità di socio della banca fiorentina dei Bardi.

Questo soggiorno fu determinante nella formazione del giovane Boccaccio perché ebbe l’opportunità di entrare in contatto con una varietà di persone, dai mercanti agli avventurieri, dai cortigiani alla ricca borghesia.

Nella Napoli del Trecento, Boccaccio ebbe modo di conoscere due realtà distinte della società medievale, quella “borghese”, attenta alla concretezza della vita economica e sociale, e quella “cortese”, legata al mondo raffinato e signorile della corte angioina.

In questo contesto molto stimolante, Boccaccio decise di dedicarsi alla letteratura, facendo sfumare i sogni del padre, che lo voleva mercante o banchiere.

Scrisse opere in versi e in prosa, in cui si notano le influenze della letteratura cavalleresca, ma anche delle narrazioni popolaresche dei cantari.

Nacquero così la Caccia di Diana, Filostrato, Filocolo, Teseida.

All’ambiente napoletano appartiene il personaggio di Fiammetta, misteriosa donna che Boccaccio forse amò e che rese protagonista di una delle sue opere più originali l’Elegia di Madonna Fiammetta.

Nel 1340 ritornò a Firenze, dove dovrà affrontare il grigiore di una vita borghese lontana dalla festosa vita cortese napoletana.

Tenendo ben presente la realtà dinamica e multiforme conosciuta in gioventù, Boccaccio si dedicò alla stesura della sua opera più famosa, il Decameron, che ebbe subito un grande successo di pubblico in Italia e in Europa.

Gli ultimi venti anni di vita di Boccaccio furono dedicati agli studi letterati ed eruditi. In particolare, grazie all’amicizia con Francesco Petrarca, egli si immerse nello studio dei classici e celebrò il poema dantesco, la Commedia, a cui egli aggiunse l’aggettivo Divina.

Fiammetta - Eduard Veith

Fiammetta, Eduard Veith, 1911

 

La convivialità nelle opere minori di Boccaccio

Il banchetto riveste un ruolo importante nelle opere giovanili di Boccaccio, sia per la rilevanza sociale sia come motore della trama stessa.

Nel Filocolo, opera narrativa in prosa, che potrebbe essere definito il primo romanzo avventuroso della letteratura italiana scritto in prosa in volgare, troviamo la descrizione di due banchetti sul modello duecentesco.

La vicenda narra la storia d’amore tra due giovani, Biancifiore e Florio, che dopo lunghe peripezie tra Spagna, Napoli, Alessandria e Roma, riusciranno a coronare il loro sogno d’amore.

Boccaccio con quest’opera dà una gentile forma letteraria ai rozzi cantari del periodo napoletano, ma soprattutto presenta una varietà sbalorditiva di caratteri dei personaggi e di ambienti, rivelando quell’apertura verso la realtà in tutte le sue forme, che sarà tipica nel Decameron.

Nei banchetti raccontati nel Filocolo, il pasto è solenne e svolto come un rituale, facendo attenzione alla gerarchia sociale.

Ci sono scambi di doni, musiche e danze, ma non vengono descritte le vivande servite, in quanto il banchetto ha unicamente un ruolo socializzante.

Solo nel Libro II è importante un piatto servito ai commensali dalla protagonista:

“uno paone bello e grasso, e pieno di velenosi sughi”.

Secondo un rito antico, una dama doveva portare un pavone arrostito, guarnito e rivestito a un gruppo di cavalieri pronti a un voto di assistenza reciproca, ma Biancifiore servirà a sua insaputa un pavone avvelenato.

Il Ninfale fiesolano è un poemetto in ottave di ambiente idillico-pastorale che attraverso la storia d’amore tra un pastore e una ninfa, rievoca le leggendarie origini di Fiesole e di Firenze.

Qui troviamo un banchetto silvestre in cui una ninfa

“avea il foco/acceso e messo a cuocer del cinghiale, /e con esso non so ch’altro animale/[…] e sopra un masso grande si ponia/la cotta carne, senz’altro savoro,/e pan che di castagne allor facièno,/ché grano ancor le genti non avièno”.

Le vivande del mondo delle ninfe assomigliano a quello dei contadini contemporanei di Boccaccio, che facevano largo uso di castagne ed erano soliti non condire la selvaggina, come invece raccomandava nel Liber de Coquina, che il Boccaccio potrà aver conosciuto alla corte angioina di Napoli.

L’intento di Boccaccio è quello di mostrare la povertà e la semplicità del mondo pastorale; infatti, il banchetto ha luogo in aperta campagna e i commensali mangiano con voracità e senza freni dettati dalle regole sociali.

Infine, troviamo un collegamento tra la sensualità e il cibo nel banchetto descritto nell’Elegia di Madonna Fiammetta.

Uomini e donne impegnati in “amorosi ragionamenti” accompagnano le proprie discussioni con vivande delicate e vini “per antichità nobilissimi”, che hanno un certo effetto afrodisiaco in quanto soliti “eccitare la dormiente Venere”.

 

La convivialità nelle novelle del Decameron di Boccaccio

 

Il Decameron è una raccolta di cento novelle, inquadrate entro una cornice narrativa.

Fu scritto probabilmente tra il 1348 e il 1353.

L’autore racconta come, durante la peste che nel 1348 devasta Firenze, una brigata di sette fanciulle e tre giovani decida di cercare scampo dal contagio ritirandosi in campagna.

Qui i dieci giovani trascorrono il tempo tra banchetti, canti, balli e giochi, e per occupare le ore più calde del pomeriggio decidono di raccontare ogni giorno una novella ciascuno.

Ogni giorno viene eletto un re (o regina) che fissa il tema, ma un membro del gruppo ha il privilegio di narrare l’ultima novella con la libertà di sceglierne il tema.

Le dieci giornate che articolano l’opera hanno questi argomenti:

  • I. tema libero;
  • II. avventure a lieto fine;
  • III. cose desiderate, conquistate o recuperate con abilità;
  • IV. amori con esito tragico;
  • V. vicende amorose a lieto fine;
  • VI. “motti leggiadri”, battute spiritose per evitar danni o acquistare prestigio;
  • VII. beffe fatte dalle mogli ai loro mariti;
  • VIII. teme delle beffe allargato a chiunque;
  • IX. tema libero;
  • X. comportamenti cortesi, liberali, magnanimi.

Come nelle opere minori, anche nel Decameron il banchetto ha una funzione sociale.

Il primo banchetto descritto nell’opera è organizzato con cura; troviamo eleganti tovaglie bianche, fiori di ginestra, vivande delicate e pregiati vini.

Boccaccio non descrive nel dettaglio le vivande, ma preferisce soffermarsi sul modo di presentazione delle stesse.

L’atmosfera è sempre piacevole e festosa, tutto è ben ordinato ed elegante, per sottolineare come in quel locus amoenus la peste sia lontana.

 

I banchetti nel Decameron sono dei veri e propri motori della trama.

Analizziamo alcuni esempi.

Nell’ottava novella della quinta giornata il protagonista è Nastagio degli Onestiche, innamorato di una donna della famiglia dei Traversari, spende le sue ricchezze in feste e banchetti sontuosi senza essere amato.

Un giorno si allontana dalla città e in una pineta assiste a una scena surreale: un cavaliere insegue una giovane, la uccide e la fa divorare dai cani. Nastagio scopre che il cavaliere, rifiutato in vita e suicidatosi per la sofferenza, era un’anima dannata, mentre la giovane che aveva gioito della morte dello spasimante era stata punita in quel macabro modo.

Nastagio fa allestire un banchetto nella pineta e invita i parenti e la donna amata; durante il pranzo la donna vede quella medesima scena e temendo che possa aver ugual destino prende per marito Nastagio.

 

Nella settima novella della terza giornata il protagonista è Teobaldo degli Elisei, il quale rifiutato dalla propria amante, decide di allontanarsi da Firenze. Sette anni dopo ritorna in città e scopre che il marito della sua amante, Aldobrandino, è stato condannato a morte con l’accusa di aver ucciso Tebaldo.

Tebaldo conoscendo la verità e travestito da pellegrino per non farsi riconoscere, aiuterà Aldobrandino, il quale lo ringrazierà organizzando un banchetto.

In questa novella il banchetto è lo sfondo per il consolidamento dei rapporti sociali; infatti, mentre i commensali mangiano la frutta, Tebaldo rivela la sua identità e la pace tornerà tra le due famiglie.

 

Nel Decameron il banchetto mostra anche cortesia e generosità, come nella novella di Federigo degli Alberighi (nona novella della quinta giornata).

Federigo è un ricco nobile di Firenze, che cerca di conquistare con le sue ricchezze la bellissima Monna Giovanna, che è sposata e non può cedere alle sue lusinghe.

In seguito divenuto povero, Federigo vive in un piccolo podere e ha con sé solo un falcone.

Quando il marito di Giovanna viene a mancare, lei e il figlio trascorrono l’estate proprio vicino al podere di Federigo.

Un giorno il figlio di Giovanna, che non gode di buona salute, conosce Federigo e ammirando il falcone desidera tenerlo con sé.

Monna Giovanna poco convinta di chiedere il falcone a Federigo in quanto unica sua fonte di sostentamento, accetta un suo invito a pranzo.

Alla notizia della visita, l’emozione di Federigo è immensa quanto la sua povertà. Si accorge infatti di non avere che verdure nella dispensa e per rimediare qualcosa in vista di una visita tanto importante decide di far uccidere il falcone e servirlo in tavola.

“[…] Gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna. E però, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella il fé prestamente, pelato e acconcio, mettere in uno schedone e arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si potea, disse essere apparecchiato.”

Durante il pranzo, quando Giovanna avanza il motivo della sua visita, Federigo in lacrime le rivela di averle servito a cena l’animale, a lui carissimo, che l’amata le chiedeva in dono.

La donna rimane colpita del gesto di Federigo e torna a casa preoccupata per la salute del giglio, che morirà in breve tempo.

Rimasta sola, la donna sceglierà di sposare Federigo.

 

Altre volte, nel Decameron il banchetto non conduce a un lieto fine della storia, ma diventa luogo di tradimenti e omicidio, come nella nona novella della quarta giornata.

Guglielmo Rossiglione scoperta la relazione clandestina tra la moglie e Guglielmo Guardacastagno, invita il rivale a cena.

Prima di arrivare al castello, Guglielmo uccide l’amante, al quale strappa il cuore con le proprie mani e ordina al cuoco di cucinarlo con le migliori spezie.

“[…] Prenderai quel cuor di cinghiare e fa’ che tu ne facci una vivandetta la migliore e la piú dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, la mi manda in una scodella d’ariento. — Il cuoco, presolo e postavi tutta l’arte e tutta la sollecitudine sua, minuzzatolo e messevi di buone spezie assai, ne fece un manicaretto troppo buono.”

La macabra vendetta è servita: la donna mangerà il cuore del proprio amato e una volta scoperto si ucciderà disperata.

“[…] ne cominciò a mangiare, e parvele buono; per la qual cosa ella il mangiò tutto. Come il cavaliere ebbe veduto che la donna tutto l’ebbe mangiato, disse: — Donna, cliente v’è paruta questa vivanda? — La donna rispose: — Monsignore, in buona fé ella m’è piaciuta molto. — Se m’aiti Iddio, — disse il cavaliere — io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo piú che altra cosa vi piacque.”

Una novella dal Decameron di John William Waterhouse

Una novella dal Decameron, John William Waterhouse, 1916

Il cibo nelle novelle del Decameron

Se per diverse novelle Boccaccio preferisce dare importanza alla funzione sociale del banchetto, in altre presenta particolare attenzione alla descrizione delle vivande.

Ad esempio, nella terza novella dell’ottava giornata, dedicata alla beffa di Calandrino, sciocco e credulone, ad opera dei suoi amici Bruno e Buffalmacco, troviamo la descrizione dettagliata della contrada di Bengodi.

In questo luogo si legano le vigne con le salsicce, si trova una montagna di parmigiano grattugiato, sopra la quale alcune persone cuociono maccheroni in brodo di capponi e scorre un fiume di vernaccia.

“[…] in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, ed avevavisi una oca a denaio ed un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú: e chi piú ne pigliava piú se n’aveva; ed ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua.”

 

Un’altra novella incentrata sulla beffa è quella di Frate Cipolla, nella decima novella della sesta giornata.

Qui vengono citati le buone cipolle di Certaldo e il famoso calderone d’Altopascio in cui i frati ospitalieri cuocevano le minestre per i pellegrini della Via Francigena.

 

Nel Decameron il cibo è anche legato alla dimensione sessuale e numerose sono le metafore di tipo alimentare-sessuale che Boccaccio usa per esaltare l’amore o per divertire i lettori sull’argomento.

Famoso è l’esempio del porro nella decima novella della prima giornata.

La novella narra la storia di un maestro, Alberto da Bologna. Egli è anziano e si innamora della bellissima Margherita dei Ghisolieri, la quale non comprende come una persona di una certa età possa innamorarsi.

In un giorno di festa, vedendo maestro Alberto nelle vicinanze, lo invitò nella sua abitazione. Il vecchio medico però si rese conto che l’invito era una sorta di beffa e allora disse a Margherita che l’amore degli anziani è molto più maturo e profondo di quello dei giovani. Disse inoltre che, come si mangia la parte più cattiva dei porri, anche il suo amore poteva essere assaporato.

“[…] Spesso ho visto le donne, a merenda, mangiare lupini e porri. Si sa che del porro nessuna cosa è buona, solo il capo è più gustoso. Voi donne, di solito, tenete il porro per la testa e mangiate le foglie che hanno un pessimo sapore. E perché voi, signora, non potreste fare la stessa cosa? Se faceste così, io sarei il capo prescelto, mentre gli altri sarebbero cacciati via.”

 

La prima novella della settima giornata è dedicata a Gianni Lotteringhi, un lanaiolo fiorentino, sposato con la bellissima Tessa, la quale però è innamorata di Federigo di Neri Pegolotti.

Nella tenuta estiva di Fiesole, quando il marito è a Firenze per lavoro, avvengono i loro incontri d’amore.

In questa novella il cibo ha una funzione rinvigorente: la donna offre all’amante due capponi lessi, uova fresche e vino, mentre al marito solo un poco di carne salata.

“[…] tra l’altre volte una avvenne che, dovendo Federigo cenare con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere due grossi capponi, avvenne che Gianni, che venire non vi doveva, molto tardi vi venne. Di che la donna fu molto dolente, ed egli ed ella cenarono un poco di carne salata che da parte aveva fatta lessare: ed alla fante fece portare in una tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte uova fresche ed un fiasco di buon vino in un suo giardino, nel quale andar si potea senza andar per la casa, e dove ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e dissele che a piè d’un pesco che era allato ad un pratello quelle cose ponesse.”

 

Una celebre storia è quella di Chichibio e la gru, nella quarta novella della sesta giornata.

Chichibìo è il cuoco veneziano di Currado Gianfigliazzi; quest’ultimo, durante una battuta di caccia, cattura una gru e la porta con sé per farla cucinare al protagonista della novella.

“Chichibio, il quale come nuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine a cuocerla cominciò.”

Mentre il cuoco prepara la pietanza, cede alla richiesta di Donna Brunetta e le dona una coscia di gru.

“La quale essendo già presso che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l’odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia.”

Al momento del servizio il nobile Currado si accorge della mancanza della coscia.

Fallito il tentativo di giustificarsi con pretesti stravaganti, il protagonista della novella riesce, con una battuta divertente, a trasformare in un’allegra risata l’umore adirato del padrone.

 

Nelle novelle del Decameron abbiamo visto come il cibo sia necessità e piacere, ricchezza e miseria, può unire o dividere, mescolare o ribadire le differenze di classe.

Attraverso il cibo Boccaccio racconta l’amore, che domina l’uomo, esalta la cortesia, le cui componenti fondamentali sono la generosità e la magnanimità, e, infine, celebra l’intelligenza, con cui l’uomo riesce a conseguire ciò che gli è vantaggioso.

Secondo Boccaccio, i suoi racconti potranno nuocere o giovare il lettore; alcuni apprezzeranno, altri criticheranno la sua opera come troppo licenziosa.

Non resta che dilettarci nella lettura delle sue storie e “chi ha a dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare; elle non correranno di dietro a niuna a farsi leggere”.

 

 

 

 

Bibliografia

G. Boccaccio, Decameron

A. Revelli Sorini, S. Cutini, F.V. Rebuffo, S. Hasbun, La Cucina di Dante e Boccaccio, Il Formichiere, 2021

Banchetti letterari, a cura di G. M. Anselmi, G. Ruozzi, Carocci editore, 2017

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