02/09/2024
La cozza di Cervia
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Pubblicazione: 11/08/2023
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C’era una volta la “passione del grano”, poi sono arrivate le Feriae Augusti e, infine, la Madre Assunta. C’era una volta il cerimoniale con cui l’uomo imitava la natura di fine estate. Era una fiaba. Una magia. Un mito.
Oggi è rimasto il rito, quello del Ferragosto: la grande festa conviviale di fine estate. Un giorno passato all’aria aperta, insieme ad amici e parenti, per mangiare, bere, non importa cosa. L’importante è che sia “tanto” e “insieme”.
Un particolarissimo rito del Ferragosto sopravvive nell’antica Lucania, dove grano, divinità, padroni e tracce di civiltà contadina testimoniano quella magica favola che non può morire nel cuore dell’umanità.
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Se in Sicilia il pranzo di Ferragosto è a base di caponata, in Calabria le frittole di maiale sono protagoniste, la pastasciutta col sugo di papera impera in Umbria, il coniglio all’ischitana nel Golfo di Napoli, il piccione in Toscana, le lumache a Belluno… l’arrosto di capretto in Basilicata e soprattutto a San Giorgio Lucano, dove per la “gruttata” di fine estate si accompagna anche con pane cafat(e) farcito con peperoni, salsiccia e uova, salumi, patate bollite e sfritte con zafaran (peperoni secchi di Senise in polvere) e cruschi. Sembra essere questo il cuore del banchetto sacrificale offerto dai lucani all’antichissima Demetra, ovvero alla “Madre dell’orzo o del grano” come sosteneva l’etnologo W. Mannhardt. Secondo lo studioso, infatti, la prima parte del nome della divinità, che sovrintende all’intero ciclo di vita e morte naturale, ha un presunto termine cretese “deai” che significa appunto “orzo/grano”. Questa radice etimologica sembra sopravvivere nella ricorrenza pagana del “Riposo di Augusto”, istituita nel 18 a. C. dal primo imperatore romano, e che si sovrappone alle Consualia, le festività estive per la chiusura dell’anno agrario dedicate a Conso, il re degli orti. Infine arriva il Cristianesimo e, sincretisticamente, nel VII sec. d. C. sovrappone la Madre di Gesù il Nazareno alla dea greca poi latina: forse al popolo non andava giù l’abolizione delle feste pagane e, soprattutto, quella dedicata alla madre delle messi. Così la divinità femminile, e cristiana, viene Assunta in cielo con anima e corpo ogni 15 agosto.
La Basilicata, conservando ritualità che altrove sembrano perdute, riesce a rappresentare la “stratificazione” dei magici cerimoniali che si sono susseguiti nei secoli. La più recente tradizione del ferragosto a San Giorgio Lucano è la gruttata ovvero la festa del 15 agosto.
«Per il nostro paesino, le grotte sono elemento di coesione comunitaria e identità culturale – racconta il dott. Pietro Valicenti, presidente dell’Associazione “Le Mille e Una Grotta” – Il “popolo dei grottaroli” in ogni giornata da ricordare, e soprattutto a ferragosto, si ritrova di buon ora in questi ambienti scavati nell’arenaria probabilmente tra il IX-XI sec. d. C. da migrazioni di popolazioni orientali. Anticamente, grazie alla loro costante temperatura di 18° gradi, queste grotte svolgevano funzione di frigo/dispensa alimentare. Quando divennero luogo di incontro e comunità, l’ingresso era permesso solo ai maschi – continua il presidente de “Le Mille e Una Grotta” – Da vent’anni l’accesso al divertimento della grotta è aperto a tutti: donne, bambini e uomini. A tutti spetta un pezzo del capretto arrosto che si prepara rigorosamente sullo spiazzale antistante la grotta (stierr’)».
Il pasto rituale, ovvero il capretto, è un altro simbolo conservato dalla stratificazione della festa di fine estate. Il capro, infatti, lo ritroviamo il giorno dopo (il 16 agosto) nella cerimonia che, per analogia, riproduce la “passione del grano” nel momento in cui viene mietuto e ucciso sul letto della Madre Terra. La passio di San Giorgio Lucano sin chiama “gioco della falce” e può essere diviso in 4 atti:
I atto: il capro – un uomo coperto con la pelle del capro giunge all’improvviso tra le messi. I mietitori devono cacciarlo e ucciderlo. Si dispongono a cerchio e, a suon di zampogne e organetto, comincia prima l’inseguimento e poi la danza funebre.
Le interpretazioni di questa zoomorfismo sono tante e diverse. Il noto antropologo Ernesto De Martino definisce l’uccisione del capro come “una ipocrisia cerimoniale” per scaricare sull’animale il “rimorso” che si genera nell’uomo quando “falcia/uccide il grano”. Potrebbe essere lo “spettro” oscuro, il daimon, che si nasconde nel rischio di una malannata o di una maledizione che chiede la sua “offerta sacrificale” per riconciliare uomo e Natura.
II atto: la sposa nel grano – l’epifania di una donna, vestita di nero con un fazzoletto bianco sul capo, che dopo aver raccolto e legato insieme le spighe falciate, compone la “gregna” ovvero l’ultimo covone.
“La rustica madonna in carne ed ossa, accanto all’ultimo covone falciato è assalita dai mietitori che, con la punta delle falci, iniziano a spogliarla” (commento dal documentario 1960, “La passione del grano” di Lino del Frà).
Questa Demetra antropomorfa ha tra le braccia il figlio morto, l’ultimo covone appunto, ovvero lo spirito del grano. Lei deve essere causa e movente della rinascita, pronta a restituire la vita nella semina e nel raccolto del prossimo anno. L’ultimo covone è il seme che deve morire per poi risorgere, come fu per Osiride, ricomposto dalla sua Iside, poi Dioniso e infine Gesù. Ed è proprio la gregna, decorata con fiori, l’elemento attorno a cui ballare e danzare nella festa della fine dell’anno agricolo, il “seme” del grano per la prosperità della prossima annata.
III atto: il padrone – “Intorno al padrone i mietitori eseguono la solita pantomima della mietitura, e quindi con la punta della falce lo spogliano: con un colpo di falce ben aggiustato vola via il grande cappello di paglia, poi la punta della falce sbottona abilmente a uno a uno i bottoni della camicia, e con un altro colpo la camicia vola via; la stessa operazione viene compiuta sui pantaloni, e il signor padrone resta in mutande” (“La messe del dolore” in Furore Simbolo Valore, Il Saggiatore, Milano, 1962 di E. De Martino)
È uno strato di secoli successivi all’origine e al radicamento territoriale della cerimonia, molto probabilmente. Secoli di latifondismo e lavoro di sfruttamento nei campi potrebbero aver generato una sovrapposizione del “nemico” al ruolo del “padrone” da abbattere.
IV atto: ritorno alla masseria, pranzo e danza finale
L’atto finale è quanto resta in superficie di una festa, le Feriae Augusti, che si stratifica di secolo in secolo e di storia in Storia ma che, infine, si suggella in un grande convivio insieme a coloro che amiamo: “Il cibo assume una struttura cerimoniale, possiede una valenza spettacolare, la tavola è assimilata all’ara sacrificale e alla terra feconda. Tale prerogativa la rende in grado di riunificare le forze spirituali che rischiano di disperdersi o di scontrarsi…” (“La danza della falce a S. Giorgio Lucano” Università di Pisa, 2003, di D. Cavarerretta )
Ringraziamenti a:
Giuseppina De Lorenzo
Pietro Valicenti, presidente dell’Associazione “Le Mille e Una Grotta”
Mariagiovanna Donadio, Presidente Proloco San Giorgio Lucano
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Caro Franco,
Ho letto e assai apprezzato questa tua lunga e artivolata riflessione antropologica sull’ultimo covone. Se il tuo cognome non mi inganna (Pinna) anche tu hai radici isolane. Da sardo a sardo, convinto che possa interessare questi lettori, di seguito ti segnalo il link a un breve (9 min.) filmato di pari titolo che ho girato nel 1981 e poi digitalizzato nel 2018 che fa parte della collezione videi di antropologia visuale della Regione Sardegna.
https://www.sardegnadigitallibrary.it/detail/6499b97be487374c8f803906